Gli stati non nascono per instaurare la democrazia, bensì per renderla impossibile
di Pino Cosentino
Democratizzare l’Unione Europea: bel programma. Ma…
In primo luogo l’Unione Europea soffre di un grave deficit di democrazia perché lo stesso deficit, anche se meno evidente, ce l’hanno gli stati che la costituiscono. I quali, pur avendo un’architettura istituzionale perfetta secondo le regole dei sistemi liberal-democratici, soffrono di una grave disaffezione dei cittadini. Anche i paesi che hanno conquistato tardi la democrazia, come la Spagna e il Portogallo, o l’hanno riconquistata dopo una dittatura, come la Grecia, in pochi anni sono passati dall’entusiasmo alla delusione. La crisi della democrazia nasce da due cause: da un lato esiste un sovrano occulto (i “mercati”) che detta ai governi le politiche economiche togliendo significato alla politica, prima ancora che alla democrazia; dall’altro, il residuo potere decisionale non è nelle mani del popolo infatti esso, con il voto, ha solo il diritto di scegliere (con una libertà più apparente che reale…) i decisori.
La riforma della cosiddetta governance a livello europeo è quindi opera vana, sarebbe come consolidare il primo piano di un edificio che abbia le fondamenta e il pianterreno instabili e traballanti. A meno che lo scopo del “consolidamento” non sia impedire la democrazia. Non ci sarebbe niente di strano. Gli stati non nascono per instaurare la democrazia, bensì per renderla impossibile. La concentrazione e l’allontanamento del potere dalle popolazioni è l’origine dei grandi organismi statali. L’antico Egitto si è formato con l’unione tra i due regni preesistenti lungo l’alto e il basso corso del Nilo, a loro volta prodotti da processi di unificazione di potentati locali, lungo i 3.000 km. del percorso del grande fiume. I potentati locali da un lato hanno rinunciato alla sovranità, dall’altro però hanno avuto la certezza di non poter essere rovesciati da moti locali, in quanto al di sopra di tutti qualcuno poteva scagliare una forza armata soverchiante contro eventuali ribellioni localizzate. Questo è quanto sta accadendo in Europa.
Stiamo assistendo alla faticosa e contrastata formazione di un nuovo stato. È del tutto evidente che la spinta efficace (non quella degli idealisti, ma quella che effettivamente ha modellato e continua tuttora a modellare la costruzione europea) ha lo scopo di consolidare e rendere irreversibile il dominio dei “mercati”, rendendo vano ogni tentativo di rovesciarlo. Ogni singolo popolo si trova davanti la potenza coalizzata di tutti gli altri stati, come abbiamo già visto nel caso della Grecia e oggi dell’Italia. Il nuovo stato, però, dovrebbe nascere dalla fusione di una trentina di stati preesistenti. Ciò non è mai avvenuto, nella storia, attraverso processi consensuali, ma sempre perché un attore ha prevalso sugli altri. Così è stato per l’unificazione dell’Italia e della Germania. Così sta avvenendo anche adesso. La potenza egemone è la Germania, che si trova ora nella posizione che aveva il Regno di Prussia nella Confederazione Germanica istituita dopo la dissoluzione del Sacro Romano Impero nel 1806 ad opera di Napoleone. Dopo la sconfitta di Napoleone fu deciso di ripristinare non già il Sacro Romano Impero, di cui si percepiva l’anacronismo, ma una Confederazione di tutti gli stati appartenenti all’area culturale tedesca. La potenza egemone era naturalmente l’Austria, non solo perché il suo sovrano era stato il detentore del titolo imperiale fino al 1806, ma più concretamente perché essa era la potenza dominante di un impero che comprendeva territori e popolazioni non tedesche, essenzialmente slavi (polacchi, ruteni, ucraini, boemi, moravi, slovacchi, bosniaci…), ungheresi, italiani e altri, che ovviamente non facevano parte della Confederazione, ma nell’insieme formavano un dominio più vasto, ricco e potente della Confederazione stessa, e facevano dell’impero austriaco una grande potenza mondiale. La Prussia dovette combattere due guerre, prima contro l’Austria per espellerla dalla Confederazione e affermare così la propria egemonia tra gli stati interamente tedeschi, poi contro la Francia, che si opponeva all’unificazione della Germania sotto guida prussiana.
Oggi sembrerebbe di assistere a qualcosa di simile: la Germania con la sua riunificazione ha acquisito lo status di quarta potenza economica mondiale, dopo USA, Cina e Giappone. I paesi europei che recalcitrano vengono ricondotti all’ordine attraverso il ricatto del debito e le regole di Maastricht. Il potere economico europeo non vede male un’unificazione che costituirebbe una garanzia di lunga vita per l’ordine sociale esistente. I principali ostacoli all’unità europea a guida tedesca vengono da fuori dell’Europa, dagli USA che vi hanno un ruolo di grandissima importanza, e che costituisce un’alternativa all’egemonia tedesca: la NATO, un’organizzazione militare su cui gli USA esercitano un “controllo analogo” a quello che hanno su un settore qualsiasi della propria amministrazione. L’analogia si ferma qui, per due ordine di motivi: la questione militare e la questione culturale. Oggi, e per molto tempo nel futuro, la Germania non può nemmeno lontanamente competere con la potenza militare e la proiezione mondiale degli USA, al contrario della Prussia rispetto sia all’Austria, sia, come inaspettatamente dimostrò con la campagna militare del 1870, alla Francia, allora ritenuta la maggior potenza militare terrestre; mentre la unificazione tedesca ha portato nello stesso contenitore stati e minori entità territoriali della stessa lingua e cultura, l’unificazione europea legherebbe nello stesso stato popolazioni che parlano, attualmente, 24 lingue diverse, le quali veicolano altrettante imponenti eredità culturali, nel senso più ampio del termine, dalla letteratura alla gastronomia, dai canti ai proverbi, dagli usi famigliari alle più raffinate espressioni artistiche.
Democratizzare l’Unione Europea non significa, come molti credono, riformare i trattati, ma democratizzare tutti i 28 stati che attualmente ne fanno parte, aprendo i loro ordinamenti alla partecipazione dei cittadini, garantendo le condizioni per una partecipazione realmente libera e consapevole e non l’ennesima manipolazione volta a garantire i privilegi di vecchie o nuove classi proprietarie, come sempre avvenuto finora. Solo allora, e non un minuto prima, si potrà cominciare a parlare di un’Europa dei popoli. Sì, é un cammino lungo, ma le scorciatoie, così utili nelle camminate, in politica non hanno mai dato buoni frutti.
Che fare, dunque? Sarebbe, più che presuntuoso, sciocco dare qui e ora delle risposte. Mi limiterò a una considerazione: le concrete circostanze storiche ci dimostrano quanto sia urgente ora risolvere ambiguità ormai insostenibili. Fin a qualche anno fa la parola “popolo”, per quanto in sé stessa imprecisa e pericolosamente polisemica, tuttavia richiamava “avanti popolo, alla riscossa…”, oppure “el pueblo, unido, jamàs serà vencido…” degli Inti Illimani ; evocava quindi determinati significati e ne escludeva nettamente altri. Per gli usi quotidiani poteva bastare.
Non è più così. Quella che poteva sembrare una pignoleria è divenuta una necessità urgente. Abbiamo assoluto bisogno di esplorare due vie: una ridefinizione di individualismo, in modo da chiarire che l’unicità di ogni singola persona non nega la sua appartenenza a più gruppi sociali, che possono diventare anche vere e proprie comunità realmente esistenti; e affermare che la sola introspezione, tanto necessaria, può però esasperare i problemi di chi con essa si incarognisce nella propria singolarità/solitudine, cosa che sempre, inevitabilmente, conduce a un punto morto, lasciando solo cenere e amaro nichilismo. E riprendere l’indagine sulla struttura sociale delle popolazioni, italiana ed europea, le classi, gli strati, i gruppi, consapevoli tuttavia che l’appartenenza all’una o all’altra categoria statistica non determina i comportamenti individuali, che restano comunque sottoposti al libero arbitrio di ognuno.
Da parte nostra, nell’ordinamento democratico che auspichiamo e senza nulla togliere alla legittimità di ogni altro orientamento culturale e politico, occorre legare indissolubilmente la questione democratica alla questione sociale e a quella ambientale. Senza una vera uguaglianza (ossia un contenimento delle differenze economiche entro fasce di consumo, senza trasformazione dei risparmi in capitale) la democrazia è impossibile. E viceversa. In Europa come in Tasmania, o su Marte.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 37 di Novembre – Dicembre 2018. “Europa: la deriva di un Continente?“