Un lungo braccio di ferro

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di Marco Bertorello e Danilo Corradi*

*articolo pubblicato su il manifesto del 3 maggio 2025 per la Rubrica Nuova finanza pubblica

Foto di Moj Box su Unsplash CC

La svolta pro-dazi statunitense pare esser letta attraverso una lente deformante. Ogni provvedimento viene interpretato come la condizione ultima posta dagli Usa e come tale viene verificata, nella speranza che repentinamente dia risultati negativi tali da far tornare sui suoi passi l’amministrazione americana. La sospensione parziale dei dazi è stata interpretata come una marcia indietro sotto i colpi dei mercati. La guerra commerciale con la Cina, invece, appare come una volontà di scontro senza rimedio, destinata a un inesorabile e lineare escalation.

A noi sembra che l’approccio di fondo di Trump sia chiaro: salvare la superpotenza a stelle e strisce attraverso protezionismo e ripiegamento nazionale. Una linea che prevede strappi, ricatti, marce indietro. La giusta opposizione alle sue politiche non può scadere nella banalizzazione né tantomeno nel rimpianto del liberismo che fu. Gli annunci shock servono a orientare le scelte economiche dei vari attori, il pragmatismo ad aggiustare le inevitabili contraddizioni che si vanno determinando. Il suo segretario al Tesoro ha parlato di «incertezza strategica».

Già nell’Ottocento e dopo la prima guerra mondiale gli Usa avevano privilegiato il mercato interno. Dopo un secolo da potenza mondiale Trump (e tanta parte della classe dirigente) sembra tornare a quei programmi, con la differenza che nel frattempo c’è stata una profonda globalizzazione da loro stessi promossa. Una globalizzazione che doveva essere la consacrazione del mondo unipolare e che invece si è trasformata nel terreno favorevole alla crescita della superpotenza cinese e alla crisi dell’egemonia americana. Non ci convince la lettura di un Trump che soccomberebbe di fronte alla finanza globale o a un presunto «principio di realtà». La partita in corso è frutto di problemi cronici e al contempo strutturali.

I dazi sono uno degli strumenti con cui Trump tenta di far uscire dall’angolo gli Stati Uniti. Non scompariranno dall’orizzonte dei paesi dove sono stati sospesi, come non è scontato che resteranno così elevati con la Cina. Certo, quest’ultimo caso risulta particolarmente significativo. Ormai siamo arrivati rispettivamente al 145% e 125%, un livello che, se confermato, renderebbe evidente l’impossibilità di mantenere aperti canali commerciali tra le due potenze globali. Giuliano Noci sul Sole ha definito il disaccoppiamento tra Usa e Cina «irrealizzabile» a causa del livello di reciproca integrazione economica.

I primi segnali sarebbero lo svuotamento di container nei porti statunitensi, il timore di avere gli scaffali dei grandi magazzini vuoti. Scarsità di alcuni farmaci e di beni importati da decenni. Produzioni di cui non si dispone nel breve periodo di un piano di rilocalizzazione industriale per mancanza di competenze, manodopera specializzata e banalmente impianti produttivi. Per non dire del pressoché monopolio che la Cina detiene su materie prime di ordine strategico. Se Washington piange, Pechino non ride.

Come sostituire le esportazioni dirette negli Usa? La svalutazione del renminbi, poi, non consentirebbe di aggirare i danni causati dai dazi, e finirebbe per allontanare l’obiettivo di una nuova moneta di riserva globale. Le prime mosse interne di Pechino sembrano andare nella direzione di rafforzare, attraverso nuovo debito, domanda e imprese, rilanciando persino un mercato immobiliare piuttosto acciaccato. Il rischio è quello di creare nuove bolle speculative e di non riuscire a domare una potenziale crisi di sovraproduzione.

A fronte di queste difficoltà indiscutibili, il braccio di ferro intrapreso può significare solo due cose: un esperimento per misurare il grado di tenuta reciproca e i conseguenti rapporti di forza, oppure la rottura totale. Il primo caso non può essere escluso come propedeutico al secondo. Un braccio di ferro che potrebbe congelarsi, con temporanei e realistici compromessi, ma che sembra essere l’orizzonte duraturo in cui si muoverà l’economia mondiale.

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