Intervista a Giuseppe Micciarelli, giurista e filosofo politico
Quale definizione di beni comuni suggerisci per affrontare le sfide politiche del nostro tempo?
Come tutte le parole di successo anche i beni comuni rischiano di essere trasformati e svuotati di significato; ma nessuna parola è destinata a rimanere pura, immobile nell’interpretazione di chi l’ha appena pronunciata. Se non abbiamo paura di una realtà che usa le stesse parole con significati diversi abbiamo soltanto un’altra strada: raccogliere la sfida e dare battaglia per l’interpretazione delle parole, anche di quelle che rischiano di diventare delle buzzword.
La cosa difficile è trovare una definizione che sia efficace giuridicamente e che però mantenga aperta la possibilità di riconoscere nuovi beni comuni.
Partiamo allora col dire che l’elemento distintivo della categoria deve essere la partecipazione popolare, intesa come un regime speciale di amministrazione. Devono cioè essere amministrati in forma diretta o partecipata dalla platea dei loro fruitori. Ma questo ancora non basta, perché devono essere conferiti chiari diritti di accesso e utilizzo del bene a un numero ampio di soggetti, nel rispetto della conservazione ecologica del bene stesso e della sua trasmissione alle generazioni future.
iQuesto ovviamente non vuol dire che si possa pensare di gestire un’azienda idrica di grandi dimensioni come uno spazio comunitario. La soluzione è allora immaginare una definizione che comprenda due tipi di beni comuni: necessari ed emergenti.
I beni comuni necessari sono quelli naturali (come l’acqua), artificiali (come i farmaci essenziali) o immateriali (come alcune risorse della conoscenza in rete). Essi sono da considerarsi strumenti indispensabili per la realizzazione dei diritti fondamentali. Perché ciò avvenga dobbiamo chiederci: con quali fondi si tutelano e sviluppano, come si bilanciano le risorse tra territori ricchi e poveri, per quali scopi? A simili domande non si può rispondere con l’indifferenza alla proprietà pubblica e privata, che si sono mostrate entrambe insufficienti. Per rompere gli abusi e la discrezionalità che determinano le profonde diseguaglianze alimentate anche dalla diseguale distribuzione di questi beni dobbiamo costringere i loro proprietari a renderli comuni. Una delle forme è appunto sviluppare modalità popolari di controllo sulle decisioni più importanti che li riguardano. Forme di democrazia partecipativa che si sviluppano su due fronti: ampliare il diritto delle persone ad accedervi indipendentemente dalla disponibilità economica, e dare a questa platea sempre più ampia la possibilità di esprimere indirizzi vincolanti nella loro amministrazione.
Poi esistono i beni comuni emergenti, come gli spazi urbani utilizzati in forme non esclusive e comunitarie. Questi beni non sono di per sé comuni, non hanno cioè necessariamente delle qualità intrinseche (architettoniche, storiche, paesaggistiche) tali da rendere indispensabile la loro tutela. Quello che fa di uno spazio urbano un bene comune non sono le sue mura, ma la comunità che lo abita. Non c’è bene comune senza comunità di riferimento, e non c’è comunità di riferimento senza che le siano riconosciuti dei poteri di uso e gestione concreti. Qui è possibile attivare delle forme di gestione molto più innovative, che riscrivano le categorie alle volte troppo deboli della democrazia partecipativa. Fortunatamente, sono già in gran parte dispiegate in tante pratiche di gestione, che possiamo chiamare diretta. Sono esempi che provano ad afferrare quell’orizzonte della democrazia diretta che non può essere rimandato a future rivoluzioni, perché questo lo ha reso sempre difficilmente afferrabile e facilmente tradito, ma va sperimentato in pratiche concrete di amministrazione civica. Perciò non si può perdere il collegamento col discorso sui diritti fondamentali. Ma non possiamo fermarci a questi, almeno non come erano intesi dalla Commissione Rodotà. Siamo in una stagione nuova, e quelli che sono stati rivendicati come beni comuni hanno mostrato la capacità di essere il contenitore conflittuale per l’esercizio di molti e più ampi diritti, economici e sociali. Dobbiamo allora allargare la connessione beni comuni-diritti fondamentali a tutti quelli che sono legati non solo alla sopravvivenza materiale, ma a una molteplicità di bisogni da realizzare, senza i quali non c’è una vita veramente libera e dignitosa. Diciamo anzi che i diritti sociali e politici troppo spesso esistono solo sulla carta, mentre in questi luoghi diventano vivi perché hanno delle mura tra cui amplificare l’eco delle loro rivendicazioni e perché in molti casi, attraverso il mutualismo e la solidarietà, trovano immediatamente canali di soddisfazione. Questo è fondamentale per rompere la gabbia in cui il privato sociale è rimasto troppo spesso intrappolato e in cui i cittadini diventano destinatari passivi di servizi sempre più sparuti. La politica si rinnova solo praticando una politica diversa. Nei beni comuni emergenti si può allora osare un diverso modello decisionale: uso collettivo e gestione diretta del bene, finalizzati all’esercizio dei diritti fondamentali, intesi in un senso molto più ampio. Qui la proprietà pubblica e privata viene erosa diffondendo i poteri di amministrazione a gruppi di persone. Distribuire il potere a chi non ha titolo, parcellizzarlo e diffonderlo per evitare la sua concentrazione, è una strategia molto antica ed efficace. Al tempo stesso si deve rivendicare un potere non proprietario, sia per ragioni politiche sia perché dobbiamo provare a impedire la facile ritirata del pubblico o l’indifferenza del privato rispetto agli oneri di manutenzione che gli spettano.
Che ruolo possono avere la teoria e la pratica dei beni comuni per un rinnovamento della politica oggi?
I beni comuni hanno senso se riescono a entrare in conflitto anche col troppo risicato contenitore della cittadinanza. È chiaro che una sfera del comune non può essere circoscritta a chi ha in comune il giusto passaporto, ché se parliamo di diritti fondamentali un simile recinto è già superato e l’idiozia del sovranismo qui si infrange: il destino della foresta amazzonica non deve essere deciso solo dal governo brasiliano (a maggior ragione questo) e non gli deve essere permesso di calpestare i diritti delle popolazioni indigene che sono i suoi primi abitanti.
Il discorso sui beni comuni si deve allora incrociare con quello sul comune, di respiro teorico e politico molto più ampio. Questo ci mostra che rinnovare la politica non è qualcosa che va chiesto, ma va declinato a partire da pratiche concrete e relazionali. Il corollario cruciale della sfida politica dei beni comuni è che impone una riflessione nuova sulla dimensione della decisione collettiva. Se vuol funzionare diventa essenziale non limitarsi a teorizzare, ma praticare una cura delle relazioni, l’apertura all’eterogeneo e l’accoglienza rispetto a una serie di bisogni ed esigenze nuove. La politica vive stagioni di identità forti e deboli: le prime si rafforzano nell’imbuto sempre più escludente della logica amico-nemico, le seconde sono troppo molli contro le ingiustizie. Dobbiamo investire nella strategia di creare identità ibride, forti ma senza perdere la tenerezza, per usare le parole del Che. Per farlo abbiamo bisogno di nuovi contenitori pluri-identitari, in cui certe differenze non siano ostacoli da eliminare, ma una parte dell’egemonia che vogliamo costruire: non rivolta tutta all’interno, come competizione tra piccoli gruppi più o meno affini, ma all’e-sterno, nella società dove vanno costruite parole, esempi, pratiche alternative rispetto ai modelli di vita e di successo dominanti.
I beni comuni sono legati al territorio in cui si trovano. Come si possono creare forme di cooperazione politica e giuridica oltre i confini territoriali, mettendo in relazioni esperienze simili in diverse città e paesi?
Innanzitutto, se si conquista un diritto, si è già in una dimensione insieme particolare e sopraindividuale. Un dono per se stessi, ma potenzialmente universale anche se si parte da una battaglia concreta, perché costituisce un precedente, come tali rivendicabile da chiunque. E così si può anche dare vita a reti e alleanze che non sono ideologiche, non si fondano cioè solo sulla comune identità politica in senso stretto. Abbiamo bisogno di costruire spazi di confronto e di relazione che non siano solo di auto-narrazione. Non abbiamo cioè bisogno solo di conoscerci, ma di sostenere le battaglie degli altri per rafforzare le nostre. Le relazioni si costituiscono dunque a partire da un fare comune e da rivendicazioni reciprocamente utili. Non basta l’idealità di un altro mondo possibile, bisogna costruire catene di relazione che mettano vicini i pezzi dell’altro mondo già in cammino. E per farlo davvero non basta affatto appellarsi alla mitopoiesi dell’unità delle lotte, ma si deve concretamente porre i bisogni gli uni vicini agli altri, perché solo così mettiamo in campo anche lo scambio degli strumenti per soddisfarli. La sfida del comune è di uscire dalla comunanza ideologica per percepire quella della condizione umana, di chi è sfruttato in questo sistema di produzione e del mondo ecologico di cui siamo solo un piccolo pezzo.
Le esperienze di autogestione sono legate a spazi e contesti particolari. Quali approcci per far sì che diventino luoghi aperti, in cui la città possa entrare e da cui possa uscire una nuova idea di città?
La risposta è nella pratica, e qui sono anche le inevitabili difficoltà. Una delle difficoltà più grandi che porta alla fine di simili esperienze è la fatica della gestione quotidiana, tanto a livello collettivo che individuale. Nella vita di ogni realtà ci sono molteplici crisi, come per esempio quella di scoprire di essere sempre meno, perché le proprie prassi collaudate magari non rispondono a quelle di tanti potenziali partecipanti, che semplicemente non entrano nel processo. E allora anche il nostro modo di fare assemblea dovrebbe fare i conti con trasformazioni che non sempre siamo in grado di cogliere in tempo. Ma anche le persone si trasformano. Quanti sono uguali a come erano dieci anni fa? Tanto, se non tutto, sarà cambiato nelle vite di ciascuno: famiglia, condizioni economiche, desideri, salute, possibilità, tempo. Il tempo è il problema principale e le forze cui ci opponiamo lo hanno tutto dalla loro parte.
Questa disparità di forze ovviamente è evidente su diversi assi, ma quello del tempo è l’incrocio più complesso con cui quotidianamente abbiamo a che fare. Per questo la rivendicazione dell’autonomia non è più sufficiente. Sappiamo che l’indipendenza è anche una trappola, mentre agire l’interdipendenza significa essere sempre capaci di agire dentro gli spazi guardando al contempo fuori di essi: ai diritti che non possiamo risolvere col mutualismo, ai servizi che vanno rivendicati con fondi pubblici, alla sicurezza in primo luogo sociale e così via. Non è facile, ma il modo per essere aperti alla città è mantenere aperto un canale di dialogo con le istituzioni per impegnarle a fornire luoghi, mezzi e finanziamenti che possano permettere a simili esperienze di occuparsi un po’ meno della gestione quotidiana e molto più della programmazione e dei ragionamenti a medio e lungo termine
Se lo facciamo, magari avremo il tempo di capire che la lotta contro un treno può collegare la Val Susa a Montevideo, e forse a molte altre città. I beni comuni di per sé rendono la città diversa, ma per cambiarne il volto devono provare a imporre la loro logica fuori dai propri spazi, in altri contesti. Il vero obiettivo allora deve essere di usare quello che si fa nei beni comuni emergenti come piattaforma di lancio per espandere una critica più ampia; non possiamo illuderci di costruire parentesi di vita altra in un mondo che va in direzione opposta. E al tempo stesso senza questi avamposti non potremmo nemmeno avere la percezione dell’altro di cui vagheggiamo
Il bivio è chiaro: riuscire a costruire miriadi di luoghi simili, imperfetti e diversi per cambiare dentro e fuori quegli spazi oppure ritirare il nostro fare politica in nuove riserve indiane a misura di micro-comunità. È tempo di costruire ponti e abbattere muri, siamo sempre di più a farlo e dobbiamo esserne consapevoli: il futuro non è alle spalle.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 41 di Settembre – Ottobre 2019. “La società che vogliamo“