Mi dichiaro contro la guerra non perché donna ma perché femminista

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di Nicoletta Pirotta (attivista femminista)

La guerra, dentro i conflitti intercapitalisti volti a ridisegnare poteri e supremazie mondiali, torna a divenire un mezzo di risoluzione dei conflitti, forse addirittura l’unico come taluni auspicherebbero.

Non solo, essa diviene paradigma di relazioni sociali volte a militarizzare le coscienze e fondamento di scelte economiche che sostengono e promuovono la produzione, l’acquisto e la vendita di armamenti. L’ultimo rapporto dello Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI) rivela che la spesa militare mondiale è aumentata del 3,7%  in termini reali (al netto dell’inflazione) nel 2022, raggiungendo i 2.240 mld di dollari, un nuovo massimo storico.

Il governo di italica stirpe, per non essere da meno, nel Patto di stabilità recentemente approvato,  ha escluso gli investimenti per la difesa dal calcolo dal rapporto fra deficit e PIL.

Ogni commento è superfluo.

Non meno inquietanti sono le dichiarazioni di Ursula Von Der Leyen, presidente uscente della Commissione europea, sulla possibilità di una guerra in Europa (non imminente, dice la Presidente, ma neppure impossibile) o quelle di Emmanuel Macron, presidente della Repubblica francese, che propone l’invio di soldati in Ucraina (oltre alle enormi risorse economiche stanziate dalla UE e dagli Stati membri per sostenere lo sforzo bellico del Paese).

Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha sostenuto, in un intervento che ha fatto il giro del mondo, che “Se vogliamo la pace, dobbiamo prepararci alla guerra” invitando a considerare come possibile l’emissione di obbligazioni in comune, per strutturare meglio l’Europa della difesa. Dichiarazioni e proposte che sono speculari a quelle di Putin, che, non pago di aver invaso l’Ucraina, tende ad alzare costantemente il livello dello scontro.

Mentre la situazione in Medio Oriente è ormai ad un livello di tragicità insopportabile: il genocidio della popolazione palestinese di Gaza ad opera del governo israeliano continua e, al di là delle parole, sembra che nessun governo o istituzione internazionale voglia fermarla. Per fortuna in moltissime parti del mondo, nelle università e nelle piazze c’è un movimento che si schiera dalla parte giusta: quella del popolo palestinese.

Pare proprio di poter dire che oggi che si sta costruendo un vero e proprio “sistema di guerra” che coinvolge l’economia, la politica istituzionale, l’informazione e si fa strada nelle scuole, nella cultura, nelle coscienze.

Credo che ciò abbia a che vedere con quella che Judith Butler, una delle figure più conosciute nel contesto filosofico attuale, definisce la “tendenza fascista” del neoliberismo odierno, un tendenza pericolosa ma al contempo “appassionata” perché costruisce gerarchie secondo le quali alcune vite possono essere più importanti di altre fino a permettersi di stare al di sopra della legge. Un esempio in tal senso è la negazione dell’odierno genocidio del popolo palestinese perché, nel fondo, i palestinesi non sono ritenuti un popolo e forse nemmeno persone! Amore, lutto, diritti hanno valore diverso per chi, dentro queste gerarchie, sta sopra o sotto. I provvedimenti sull’immigrazione ne sono un ulteriore esempio così come il malcelato disprezzo o fastidio per le classi sociali impoverite.

Si può dire, dunque, che essere contrariə alla guerra, particolarmente in questo complicato frangente storico, non può essere “solamente” volere la pace (quale?) ma l’essere contro il sistema capitalista nel suo complesso.

Da questo punto di vista io mi dichiaro contraria alla guerra.

Non in quanto donna bensì in quanto femminista.

Lo sottolineo perché trovo fuori luogo le affermazioni secondo le quali le donne sarebbero “naturalmente” contrarie alla guerre in quanto generatrici di vita (sob!). Un’affermazione quantomeno bizzarra in un contesto nel quale molte donne al potere, non necessariamente solo di destra, sostengono o comunque assecondano politiche di guerra.

Negli ultimi anni i movimenti conservatori in Europa hanno saputo esprimere una leadership femminile (si vedano figure come quelle di Marine Le Pen o Giorgia Meloni) che hanno sposato politiche a favore degli interventi armati insieme  alla costruzione del nemico attraverso ferree logiche di contrapposizione noi/loro.

E anche nel campo progressista non mancano sostenitrici degli interventi armati, una su tutte la ministra degli Esteri tedesca esponente dei Verdi.

Avere più donne ai vertici delle istituzioni politiche, delle multinazionali, dei sindacati non sta producendo di per sé una società più giusta e meno bellicosa.

Proprio per questo è più corretto affermare che è il femminismo ad essere contro la guerra, non il genere femminile tout court.

Il  femminismo nella sua intuizione più radicale, come bene ha scritto Lea Melandri, ha saputo svelare e contrastare la violenza maschile in quanto espressione di un dominio che deve il suo radicamento e la sua durata alla colonizzazione del pensiero, oltre che del corpo, delle donne.

Un dominio che è uno, forse il più duraturo, dei paradigmi delle relazioni sociali e quindi del modello di società, Un modello che contempla la guerra come una possibilità praticabile.

Eppure anche richiamarsi al femminismo non basta, perché l’elaborazione femminista, come intreccio di pensieri e pratiche non sempre ai margini del potere, non è scevra di contraddizioni.

Cinzia Arruzza, Tithi Bhattacharya e Nancy Fraser nel “Il femminismo per il 99%. Un manifesto” (Laterza, 2019), hanno avanzato la tesi , ampiamente dimostrata, che l’oppressione di genere non è causata da un unico fattore, il sessismo, ma è il prodotto delle intersezioni di sessismo, razzismo, colonialismo e capitalismo. Per questo è auspicabile un “femminismo per il 99%” in contrasto con quello che le autrici chiamano femminismo liberale. Un femminismo che, inconsapevolmente o meno, si comporta come un’ancella del capitalismo non lottando contro le gerarchie di dominio e di violenza del sistema per limitarsi a riformarlo con l’introduzione delle donne nei luoghi di potere.

Scrivono Aruzza, Battarcharya e Fraser che questo fatto potrebbe spiegare perché le femministe, un tempo criticavano una società dove si promuoveva il carrierismo e avevano come priorità la solidarietà sociale mentre oggi, alcune di loro, festeggiano le imprenditrici e incoraggiano la meritocrazia. Conquistare per l’1% delle donne i privilegi assicurati dal patriarcato non produce nessun effetto per il restante 99% che continua a essere oggetto di oppressione per il colore della pelle, per la precarietà economica, per un orientamento sessuale non conforme.

Ecco perché la recente ondata femminista internazionale, nata in Argentina con il movimento “Ni una menos”, auspicando un femminismo che abbia “consapevolezza di quel che il sistema capitalista è”, ha fatto proprio un approccio intersezionale (nato all’interno del “black feminism”) che consente di cogliere l’intreccio fra diverse oppressioni individuando l’origine dello sfruttamento razziale, sessuale e lavorativo propri del sistema capitalista e patriarcale.

Tutto ciò detto, mi pare che si possa affermare che sostenere o contrastare il ricorso alla guerra abbia molto a che vedere con l’esercizio del potere e con il posizionamento nella società.

Posizionamento che è il frutto di una intersezione dinamica e costante fra classe, genere, razza.

Non è la “natura femminile” ad essere contro la guerra quanto le pratiche femministe intersezionali che provano a sfidare il sistema da cui la guerra genera.

 

Immagini:

“Prima dell’assemblea”  Torino, 17 maggio 2024. Una studentessa del Politecnico di Torino accoglie gli spezzoni di corteo provenienti da Palazzo Nuovo e dal Dipartimento di Fisica subito prima dell’assemblea congiunta dell’Intifada studentesca. Foto: M.BARIONA

“Non c’è lotta femminista senza Gaza. Non c’è futuro senza Gaza”  Torino, 8 marzo 2024. Nonostante la pioggia migliaia di persone partecipano al corteo del movimento NON UNA DI MENO contro la violenza patriarcale. La protesta è scandita da molti interventi sulla violenza che gli uomini — inclusi molti compagni di lotta — esercitano nelle case, nei luoghi di lavoro, nelle scuole di ogni grado, negli ospedali, nelle strade. Violenza che diventa omicidio di massa nelle terre coloniali come il Congo, dove estraiamo i minerali per la nostra tecnologia, o in Palestina, dove Israele sta privando un intero popolo dei propri figli e del proprio futuro. Foto: M.BARIONA

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 53 di Maggio – Giugno 2024: “Chi fa la guerra non va lasciato in pace

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