di Michele Di Schiena
Tratto da: Adista Segni Nuovi n° 34 del 08/10/2016
Stanno meglio i Paesi che non riescono a formare un governo? C’è chi risponde affermativamente a questa domanda citando l’esempio del Belgio, che per un anno e mezzo, dal giugno del 2010 al dicembre del 2011, è stato per ben 540 giorni senza governo (o, più esattamente, con un governo incaricato solo degli “affari correnti”), facendo registrare in tale periodo una soddisfacente crescita economica con un PIL oltre il 2%. Una tesi che troverebbe oggi conferma nella situazione della Spagna, un Paese che, pur essendo investito da una perdurante instabilità politica che lo priva da circa nove mesi di un Esecutivo nella pienezza dei suoi poteri, può vantare una indiscutibile crescita accompagnata da altri significativi segni di ripresa.
Due non trascurabili casi di preteso autogoverno della società che inducono diversi commentatori a parlare di un fenomeno rivelatore di un indirizzo agli antipodi rispetto a quello delle dirigenze del sistema dominante, che svolgono un’assillante pressione sulle democrazie più avanzate per indurle a rafforzare gli Esecutivi a danno dei Parlamenti. Ma le cose non stanno così dal momento che gli entusiasmi per i fenomeni di autogoverno della società e le spinte verso riforme capaci di indebolire le democrazie partecipative sono, a ben guardare, due facce della stessa medaglia. Si tratta invero di due processi in linea con le aspettative della teoria per la quale la morte della politica sarebbe la condicio sine qua non per l’affermazione del dogma liberista che punta ad affidare ai mercati il governo dell’economia con una forte riduzione del ruolo della politica istituzionale. Una filosofia che impone i suoi diktat a dispetto dei clamorosi fallimenti delle sue ricette con la conseguenza che anche dove la squilibrata crescita neoliberista c’è (come nel Belgio di ieri e nella Spagna di oggi) essa viene pesantemente pagata dalla stragrande maggioranza della popolazione con l’aumento della disoccupazione, l’allargamento del lavoro precario e il progressivo abbattimento dello Stato sociale.
Dopo il “trentennio glorioso” (1945-1975), vissuto dalle democrazie occidentali all’insegna dei principi della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948 con la realizzazione di importanti conquiste sociali, fu avviato negli Stati Uniti quel progetto di svuotamento dell’esperienza democratica i cui prodromi sono rinvenibili nel documento del 1975 dal titolo “La crisi della democrazia. Rapporto sulla governabilità delle democrazie”. Uno studio richiesto dalla Commissione Trilaterale, l’influente quanto riservata associazione non governativa composta da oltre 400 membri (uomini d’affari, politici, intellettuali provenienti dall’America settentrionale, dall’Europa e dalle aree più industrializzate dell’Asia) fondata il 23 giugno 1973 da David Rockfeller. Proprio quel noto banchiere statunitense, convinto sostenitore di un “nuovo ordine mondiale” caratterizzato da una sovranità internazionale affidata a una élite di intellettuali e di banchieri, sistema questo che sarebbe da preferire a quello “dell’autodeterminazione nazionale” praticata nei secoli passati. Un progetto di quella Trilaterale non a torto considerata la somma dei “poteri forti” mondiali e il centro-motore della globalizzazione, che auspica la sostanziale trasformazione delle democrazie in “tecnocrazie” burocratiche prive di qualsiasi mandato popolare e controllate dai quartieri alti del potere economico mondiale.
Un disegno che è stato la stella polare di quella rivoluzione liberista portata avanti da Margaret Thatcher, primo ministro del Regno Unito dall’aprile del 1979 al novembre del 1990, e da Ronald Reagan, presidente degli Stati Uniti dal gennaio del 1981 al gennaio del 1989. Un programma oggi caldeggiato, con varie sfumature, dalle grandi organizzazioni internazionali economiche e finanziarie (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e Organizzazione Mondiale del Commercio) e anche da importanti settori dell’Unione Europea per non parlare delle potenti multinazionali specialmente statunitensi fra le quali spicca il ruolo della J. P. Morgan, autrice dell’ormai famoso documento pubblicato il 28 maggio 2013 con il quale venivano chieste alla classe dirigente dei Paesi dell’Europa meridionale riforme rivolte a modificare le Costituzioni nate dopo la caduta dei fascismi e influenzate dalle forze progressiste.
Ha ragione allora Stefano Petrucciani, ordinario di Filosofia politica alla Sapienza di Roma, il quale nel libro Democrazia (Giulio Einaudi editore, 2014) afferma che i mutamenti del sistema politico stanno avvenendo attraverso l’indebolimento del ruolo dei Parlamenti a favore degli Esecutivi, lo sganciamento degli eletti rispetto agli elettori e lo svuotamento della discussione interna ai partiti. E tutto ciò attraverso un “lungo processo di riduzione della rappresentatività democratica” il cui inizio si può far risalire proprio al già citato rapporto sulla crisi della democrazia commissionato dalla Trilaterale. E ha anche ragione l’economista francese Jean Paul Fitoussi quando in diversi suoi scritti sostiene che il capitalismo, escludendo la politica, rischia di crollare come è accaduto al “socialismo reale” e sottolinea l’esigenza di “inventare un nuovo futuro” per “restituire alla democrazia quel vigore che mai avrebbe dovuto perdere”. Ma c’è molto di più nell’area delle autorevoli voci che puntano all’avvento di un mondo più umano e più giusto se è vero come è vero che Barak Obama, Presidente di quel Paese dove è sorta e ha sede la Trilaterale, ha detto, parlando il 20 settembre scorso all’Assemblea delle Nazioni Unite, che «la strada della democrazia continua ad essere la migliore» aggiungendo che chi crede in ciò «deve farsi sentire a gran voce».
La partita che si sta giocando in Italia, in Europa e nel mondo è dunque quella fra un capitalismo iperliberista che vuole accantonare la vera democrazia, quella che non può non essere – almeno tendenzialmente – partecipativa e sostanziale, e quanti, sia pure in modi diversi, si oppongono a tale rovinoso disegno. La politica si trova perciò ad un bivio: o si emancipa dal ruolo ancillare assegnatole dai potentati economici e si rifonda sul confronto fra grandi opzioni ideali e culturali e sulla competizione fra modelli economico-sociali diversi per costruire un “nuovo ordine” che sia agli antipodi di quello vagheggiato da Rockfeller, o si condanna a diventare sempre di più l’esercizio del nulla, la palestra di tutte le truffe, lo spazio inquinato dal malaffare e dominato dalla bramosia di potere.
Michele Di Schiena è presidente onorario aggiunto della Corte di Cassazione
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 26 di Novembre-Dicembre 2016 “Voglio cambiare davvero, quindi voto NO!“