di Pino Cosentino
La partecipazione politica si può paragonare a uno sport estremo, come scendere con gli sci dalla vetta del Cervino, o all’ormai proverbiale salmone, a cui sia stato attaccato un peso per vedere se riesce ugualmente a risalire l’avversa corrente.
“Partecipare” per il comune cittadino è oggi una triplice sfida: contro le sue condizioni strutturali di inadeguatezza; contro l’ostilità, spesso neppure dissimulata, delle istituzioni; contro la diffidenza e il fastidio dei suoi pari. Si tratta però di condizioni modificabili. L’inadeguatezza infatti non attiene alle qualità personali: è strutturale, poiché dipende da un contesto (la democrazia rappresentativa, la forma politica che sulla base dell’esperienza storica fino ad oggi sembra la più consona a società di capitalismo pienamente sviluppato) che ha come condizione della propria sopravvivenza la separazione sostanziale e l’unione formale tra politica e cittadini.
Viviamo in un sistema politico che deve proclamare le virtù della partecipazione mentre la rende impraticabile per chi non sia particolarmente vocato al sacrificio. Tuttavia questa contraddizione rappresenta un’autentica difficoltà per il sistema vigente, che deve vedersela con una persistente crisi di consensi. Questa contraddizione è la crepa nel muro che il capitalismo ha eretto a difesa dei suoi meccanismi di funzionamento, ma include una trappola in cui cadono coloro che, apprezzando la contraddizione e vedendone le potenzialità, vorrebbero introdurre mutamenti sostanziali nel sistema costruendo liste elettorali e organizzazioni di sostegno (partiti), subordinati alla lista. Così il punto debole del sistema si converte in suo punto forte. Nell’immaginario di molti attivisti vive ancora lo schema secondo cui i movimenti salgono di grado e diventano attori politici a tutto tondo diventando partiti, cioè liste elettorali che si propongono come rappresentanti del popolo. In questo modo le energie dei movimenti sono deviate sul terreno dell’avversario, dove saranno neutralizzate, dovendosi assumere le compatibilità del sistema e andando incontro a una mutazione antropologica che le porta ad essere “ottime ruote di scorta” del sistema che volevano abbattere. Una mutazione in senso diametralmente opposto a quella necessaria.
I movimenti debbono crescere, in senso qualitativo, come organizzazioni “del” popolo e non “delegate dal” popolo, questa è l’unica rivoluzione che aprirà una nuova era nella storia dell’umanità. Ogni altro cambiamento politico, per quanto possa essere presentato come “storico, epocale ecc.” non sarà che un avvicendamento di élites.
Il primo e fondamentale terreno di lotta dei movimenti per diventare movimenti politici è la conquista di condizioni favorevoli per la partecipazione, continuativa, di tutti/e i/le cittadini/e che lo desiderino, ai processi decisionali pubblici; non certo passare dall’altra parte della barricata esistente oggi tra rappresentanza e popolo. L’operazione di saltare nel campo della rappresentanza si deve compiere, ma solo quando la crescita quantitativa e la maturazione collettiva dell’organizzazione popolare garantisca che il salto distruggerà il sistema, non l’autorganizzazione del popolo.
Oggi compito politico primario dei movimenti è trasformare la natura del potere politico, a partire dal livello loro proprio. E’ far diventare la partecipazione un fenomeno di massa. Questa è politica.
Ci si chiede: su che scala? in quali ambiti? con quali obiettivi?
Si può pensare che movimenti locali possano trasformarsi in soggetti politici collegandosi tra loro per obiettivi quali l’abolizione del trattato di Maastricht, una riforma fiscale che reintroduca una forte progressività sui redditi delle persone fisiche, la separazione tra banche commerciali e banche di investimento, la rottura con la NATO….? Ciò potrà avvenire quando e se i movimenti locali saranno già diventati soggetti politici nell’ambito locale in cui sono nati e dove le loro pratiche possono trasformare un aggregato di solitudini in comunità unite nel custodire e valorizzare il pluralismo delle scelte di vita, personali e collettive, e delle preferenze sull’organizzazione della/e comunità. I movimenti locali diventano attori politici solo se portano i/le cittadini/e ad esercitare collettivamente i poteri politici, e ciò può avvenire in prima istanza su scala locale.
“Riprendersi il Comune”: questo obiettivo già posto da Attac Italia è di fatto alternativo all’idea della dimensione politica da raggiungere con un’alleanza nazionale tra movimenti. I movimenti, se non sono già diventati soggetti politici in ambito locale, non sono in grado di costruire, a livello nazionale, delle coalizioni durature capaci di crescere organicamente nel tempo.
In concreto, cosa si deve fare? I movimenti che nascono su problematiche urbanistiche, sulla gestione di servizi pubblici locali e beni comuni, o su qualunque altra questione che faccia capo alle competenze dell’amministrazione comunale, cominciano a diventare movimenti “politici” quando esigono che i/le cittadini/e abbiano un ruolo riconosciuto, regolato e garantito nei processi decisionali pubblici. La partecipazione dei/delle cittadini/e è un diritto, non una concessione delle superiori autorità.
E’ necessario che il Comune rimuova gli ostacoli normativi e materiali che ne rendono difficile, o in diversi casi impossibile, l’esercizio. La struttura comunale, a determinate condizioni, deve essere a disposizione dei cittadini per la stesura senza errori di petizioni, proposte, referendum ecc.; per raccogliere tutta la documentazione sui problemi su cui persone singole o gruppi intendono intervenire; le raccolte di firme debbono essere facilitate, allungando il periodo utile e autorizzando i promotori ad autenticare le firme; debbono essere poste a disposizione dei/delle cittadini/e, che ne facciano richiesta nelle dovute forme, sale di riunione e attrezzature varie (computer, stampanti, proiettori ecc.).
Partecipare deve essere più facile e gratificante che non partecipare.
Finché non si vince questa battaglia, in campo resteranno dei volonterosi eroici gruppuscoli, facili prede di ogni allucinazione da auto-referenzialità, fatalmente sterili perché la rivoluzione necessaria riguarda la formazione di nuovi tipi umani, non il conseguimento di cambiamenti normativi o organizzativi in quanto tali. Il lobbismo a fin di bene può sì ottenere dei risultati, anche importanti; ma non ci fa fare alcun passo verso una meta che non è un “meglio” rispetto a un “bene”, ma è oggi, semplicemente, il minimo indispensabile.
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 38 di Gennaio – Febbraio 2019. “Il cambiamento del clima, il clima del cambiamento“