di Fulvio Padulano
Il Piano Renzi della buona scuola promette un’incredibile assunzione di 150.000 precari “nel corso di un solo anno”, al costo di 3 miliardi di euro nel periodo 2015/2016 e di 4 miliardi circa per gli anni a venire. Al di là della dubbia sostenibilità finanziaria della Grande Promessa (mancano i fondi persino per i 4000 “quota 96”), il documento del governo significativamente riconosce che la scuola ha bisogno di insegnanti. Inoltre, è imminente la sentenza della Corte di giustizia europea che obbligherà l’Italia ad assumere i lavoratori che svolgono il medesimo lavoro in modo reiterato, comminando in alternativa una multa di circa 4 miliardi. Per ironia della sorte, la cifra pari al costo di assunzione dei precari della scuola.
Ma se lo stesso governo riconosce che la scuola necessita di insegnanti, e se, come “dice l’Europa”, bisogna assumere stabilmente i lavoratori con contratti reiterati nel tempo, allora perché queste promesse assunzioni diventano un vero e proprio ricatto (modello Marchionne)? Il documento vincola le assunzioni all’accettazione di un patto che costituisce una riforma radicale della scuola italiana: attraverso di esso si realizzano finalmente in modo compiuto il processo di privatizzazione e il modello di scuola-azienda avanzato a tappe in questi anni, da Berlinguer a Brunetta, dalla Gelmini alla Aprea, sostenuto da finanza e grande industria e contro cui studenti, famiglie e lavoratori della scuola si battono da anni, denunciandone la gravità. Il Piano Renzi si presenta, con la grafia rassicurante di un bambino, come la buona scuola. Nega di essere una riforma ma realizza, de facto e de jure (istituzionalizzando una tendenza già introdotta nella scuola dalle precedenti riforme), una completa e radicale trasformazione dello status del docente. La domanda che introduce il profilo del “nuovo docente” – insegnanti anche con 30 anni di servizio – è la seguente: “che cosa faranno questi nuovi docenti nella scuola italiana?” (p. 21).
Innanzitutto i quasi 150.000 precari da assumere dovranno adattarsi a una certa flessibilità geografica e tipologica: accettare l’incarico anche fuori della propria provincia e regione, adattarsi a nuove tipologie di lavoro, per cui saranno assegnati: “a) alle cattedre vacanti e disponibili; b) alle supplenze, anche brevi [quindi eliminazione della terza fascia delle Graduatorie d’istituto, ndr]; c) alle necessità e/o disponibilità di organici dell’autonomia delle diverse scuole o reti di scuole su tutto il territorio nazionale” (p. 27). Dunque, il nuovo docente della buona scuola dovrà esser pronto a tappare i buchi delle supplenze, estendere l’insegnamento anche a “materie affini” alla sua e, anziché lavorare in funzione degli specifici gruppi-classe, dovrà adattarsi a lavorare all’organizzazione e miglioramento dell’offerta formativa della scuola in posizione di “organico dell’autonomia”: occuparsi cioè di Pon, progettini, valutazione, viaggi d’istruzione, servizi, promozione della scuola e quanto disposto dal Preside e dalla nuova figura del docente mentor, in funzione della scuola o rete di scuole per cui lavora.
Un altro punto fondamentale riguarda il potere decisionale dei docenti: con la revisione degli organi collegiali prevista dal documento, esso sarà drasticamente ridotto, abolito in sostanza, in quanto al Collegio dei docenti spetterà la sola funzione di programmazione didattica, mentre il potere di indirizzo (progetti e attività da svolgere durante l’anno scolastico) sarà affidato al Preside e a un consiglio consultivo ristretto di supporto, non bene chiarito (alcuni docenti? finanziatori privati?). Alla perdita di potere del Collegio dei docenti fa da contraltare la nuova figura del docente mentor, che “segue per la scuola la valutazione, coordina le attività di formazione degli altri docenti, compresa la formazione tra pari, sovrintende alla formazione dei colleghi, accompagna il percorso dei tirocinanti e in generale aiuta il preside e la scuola nei compiti più delicati legati alla valorizzazione delle risorse umane nell’ambito della didattica” (p. 57). Il mentor è scelto dal Nucleo di Valutazione interno “tra i docenti che per tre trienni consecutivi hanno avuto uno scatto di competenza” e prima dei 9 anni, dal Nucleo di valutazione interno; dura tre anni rinnovabili, non può costituire più del 10% del personale della scuola o rete di scuole e percepisce anche una indennità supplementare agli scatti. Il mentor dirige inoltre gli esperti della didattica (anche esterni alla scuola) e i non meglio precisati “innovatori naturali” che, premiati persino economicamente, si occupano della formazione per i docenti.
La formazione dei docenti si afferma infatti come un obbligo, e la sua efficacia richiede una misurazione specifica. Il fulcro di questa trasformazione della scuola è costituito infatti dal sistema di certificati e crediti, che attesteranno il famigerato “merito”, di cui si parla nella III parte: “Le nuove opportunità per tutti i docenti: formazione e carriera nella buona scuola”. Il cambiamento è esplicito: si tratta di “ripensare la carriera del docente”, ricorrendo ad “un nuovo status giuridico” (p. 50). Secondo il documento “la funzione docente” comprenderà non solo l’attività di insegnamento, ma anche le cosiddette ‘funzioni strumentali’, come l’aggiornamento e la formazione in servizio. Queste attività saranno connesse al riconoscimento di crediti “didattici, professionali e formativi”, che saranno certificati e arricchiranno il portfolio del docente. E nessun dubbio – assicurano con la ‘coda’ che già brucia – sul fatto che “non sarà un sistema fatto di sole procedure formali e certificati”, poiché “ci sarà spazio per una valutazione anche qualitativa interna alla singola scuola”.
Sulla composizione e i criteri dei Nuclei di valutazione interna cui si fa riferimento però non si dice molto, ma di certo ci si avvarrà dei test Invalsi. Il portfolio di crediti certificherà il “merito” del docente all’interno di una classifica della scuola, consentendo l’accesso (al 66% dei docenti di ogni scuola) agli scatti salariali secondo il nuovo sistema dei crediti: l’attuale criterio di anzianità sarà abolito, anche per chi è in servizio da meno di 33 anni, e non permetterà più di conteggiare gli scatti di carriera. Quindi nella scuola del “giovane” Renzi nessun riconoscimento dell’esperienza maturata negli anni, ma più servizi, progetti, corsi di formazione possibili per diventare ‘meritevoli’ del dovuto aumento salariale. Tralasciamo ogni commento sul mercato sviluppatosi in questi anni attorno a progetti ed enti di formazione. Tale “merito” sarà dunque il criterio guida della carriera del docente.
Una parentesi economica sullo stipendio risulta molto significativa. Eliminando il criterio di anzianità, si realizza un taglio complessivo e strutturale dello stipendio dei docenti. Come l’ha definita Renzi, una riforma a costo zero (anzi al ribasso): ecco le riforme che ci chiede l’Europa! È sufficiente calcolare che il meccanismo di scatti “meritocratico” comporterà, per un docente “meritevole” in media due volte su tre durante tutta la sua carriera (coerentemente al limite del 66% previsto dalla riforma), a una decurtazione di circa 26 € al mese rispetto all’attuale sistema di conteggio (il documento parla di 720€ di aumento massimo possibile contro gli attuali 577€, ma considerando un docente che ricevesse tutti gli scatti di ‘merito’ possibili, che sono invece attribuibili solo a 2 docenti su 3 di ogni scuola, appunto il 66%). Se i meritevoli 2 volte su 3 perdono 26€ al mese, immaginiamo quanto perderanno i meno o poco meritevoli, se non gli immeritevoli tra cui, sembra, saranno considerati tutti quei professori che si occupano soltanto di insegnare, matematica, greco o storia, già ampiamente presi dalle attività, dalle difficoltà e dalla bellezza del compito. Quali “meriti” e certificazioni oggettive, da allegare in un portfolio, si potranno produrre? Ma evidentemente i docenti sono ‘invogliati’ e degradati dal nuovo sistema a fare a gara tra loro ad iscriversi piuttosto a qualche corso per imparare a utilizzare la lavagna elettronica (“crediti formativi”) oppure organizzare l’open day della scuola (“crediti professionali”) o raggiungere punteggi alti all’Invalsi (“crediti didattici”) per provare a rientrare tra il 66% dei docenti che otterrà 60€ di aumento ogni tre anni.
La questione non riguarda però solo la retribuzione dei docenti italiani, fra i meno pagati in Europa. Il significato profondo risiede nella trasformazione della scuola pubblica e democratica in un’azienda standardizzata, liberalizzata e trasparente come richiesto dal mercato. Consideriamo le certificazioni di “merito” (portfolio): esse si aggiorneranno ogni tre anni e saranno pubbliche, promuovendo – attraverso la trasparenza dei dati delle singole scuole e dei singoli professori – una mobilità che faccia incontrare la domanda con l’offerta. Non a caso nel documento si fa l’esempio di un docente che può valutare di trasferirsi in una scuola con punteggi minori in modo da rientrare più facilmente tra i meritevoli!
Il mercato è il paradigma che non si vuole più solo attuare ma legittimare come l’unico possibile, anche per il sapere e l’educazione dei giovani. Il dirigismo pseudo-efficientista del Preside-manager, la competizione tra i docenti (e tra le scuole) agli ordini dei caporali, lo svuotamento della collegialità e della rappresentanza portate avanti in questi anni e condensate nella buona scuola di Renzi sono l’esatta negazione della libertà d’insegnamento, sancita dalla Costituzione. Si vuole cancellare una scuola pubblica e democratica proprio perché essa, promuovendo il libero sviluppo della persona e della società, costituisce una delle ultime roccaforti di una civiltà che ancora cerca di opporsi alla barbarie del mercato unico globale.
Tratto dal Granello di Sabbia di Ottobre 2014: “La Buona ScuolAzienda”, scaricabile QUI