di Marco Bersani
Se accendiamo i riflettori sulla società italiana scopriamo più di un paradosso. Volgendo lo sguardo verso l’alto, quello del governo e dell’agenda politica, il campo sembra interamente occupato da un conflitto, mediaticamente aspro, ma accomunato da un unico filo rosso: la permanenza delle politiche liberiste determinate dalla narrazione/trappola del debito.
Assistiamo così ad una singolar tenzone che vede i contendenti dividersi fra chi si schiera tout court con l’establishment europeo, in difesa della cosiddetta stabilità finanziaria e dei vincoli di Maastricht, e chi si appella ad un sovranismo, variamente immaginato, ma agito con una precisa declinazione nazionalista e razzista. Nessuno dei contendenti mette in discussione le politiche liberiste, il conflitto è solo sui luoghi del comando.
Pur considerando la volatilità delle opinioni in un contesto di profonda frammentazione sociale -basti vedere il repentino passaggio ‘dalle stelle alle stalle’ del rottamatore fiorentino- il crescente consenso verso il governo gialloverde (bruno?) è intimamente legato alla frustrazione sociale di chi ha visto peggiorare drasticamente le proprie condizioni di vita, in seguito alle politiche portate avanti negli ultimi decenni da chi ha posto i vincoli finanziari come priorità sui diritti fondamentali e sui beni comuni. Dunque il campo pare interamente occupato da questo falso conflitto, rispetto al quale non sembra possibile neppure pensare ad un’alternativa.
Anche volgendo lo sguardo verso il basso e dentro la società spunta un altro paradosso: contrariamente alla percezione soggettiva di molti attivisti, il numero di donne e uomini che, dentro la loro quotidianità sociale, mettono in campo lotte, pratiche ed esperienze che suggeriscono un altro orizzonte e un altro modello, non è mai stato così ampio come in questi ultimi anni; il problema, semmai deriva dal fatto che, mai come in questi medesimi anni, questo insieme di donne e di uomini ha inciso così poco sull’agenda politica.
E’ come se la rassegnazione all’inevitabilità della trappola del debito avesse ridimensionato anche il loro orizzonte e l’azione compiuta da ciascuno di essi, pur essendo anche molto radicale dentro l’esperienza specifica, avesse smesso di essere considerata parte di un sogno collettivo per una società diversa.
Questo paradosso sociale è ovviamente parte e frutto di una storia dei movimenti sociali di questi ultimi venti anni, che li ha visti vincere e perdere nello stesso tempo su diversi terreni.
Sono almeno tre i nodi cruciali di questa storia.
Il primo data dalla fine del secolo scorso, con l’emersione nel 1999 a Seattle del movimento altermondialista, che poi avrebbe attraversato le strade della speranza a Porto Alegre e quelle del conflitto a Genova. Fu un movimento che, per la prima volta dopo tre decenni, osò affermare “Un otro mundo es posible”, mettendo radicalmente in discussione il mantra liberista “There is no alternative” lanciato dalla premier inglese Thatcher,
Quel movimento ha messo in moto il mondo, ma ha poi subito una sconfitta sulla questione della guerra. La cartina di tornasole fu il 15 febbraio 2003, quando la più grande manifestazione globale contro la guerra -3 milioni solo in Italia- non riuscì a posticipare neppure di un giorno l’attacco americano all’Iraq del marzo successivo.
Un secondo nodo, specifico della situazione italiana, si ebbe quando Rifondazione Comunista, fino ad allora unico partito completamente interno al movimento dei social forum, decise di posizionarsi non più sul versante – lungo e da costruire – dell’alternativa di sistema, bensì all’interno del campo del centro-sinistra con la partecipazione al governo Prodi.
Il prevedibile fallimento di quell’esperienza fu nefasto per tutte le conseguenze che ricaddero sul movimento, segnando la crisi, ancora oggi non reversibile, della cosiddetta “sinistra radicale” come progetto politico e sociale.
Ma le energie mosse da quel ciclo di lotte tornarono a germinare a livello territoriale, producendo conflitti e avanzamenti su tutto il terreno delle battaglie per i diritti: esemplare, in questo senso, fu la lotta per l’acqua, che arrivò sino alla straordinaria vittoria del referendum nel 2011, segnando con il paradigma dei beni comuni un nuovo fronte di antagonismo politico e culturale al pensiero unico del mercato.
Il movimento per l’acqua riuscì a parlare all’intera società e vinse, ma fu successivamente sconfitto dalla mancata svolta sulle politiche di privatizzazione, tanto sull’acqua quanto sui beni comuni e i servizi pubblici più in generale.
L’insieme di questi percorsi, che, pur avendo costruito fortissime mobilitazioni sociali, hanno prodotto risultati molto al di sotto delle aspettative, è stato senz’altro prodromico all’attuale disillusione sulla possibilità, non tanto di praticare conflitti e pratiche diverse, bensì di farlo pensandole come tappe di un cambiamento più generale.
La risposta a questo ciclo di lotte, apparentemente vinto dal modello dominante, porta tuttavia con sé un terzo paradosso: se, grazie alla trappola del debito, divenuta il mantra della narrazione dominante a partire dall’estate 2011 – subito dopo la vittoria referendaria sull’acqua – il capitalismo ha potuto parare gli attacchi all’ideologia del pensiero unico del mercato, non ha potuto contemporaneamente nasconderne l’intrinseca fragilità.
Infatti, nonostante l’accresciuta ferocia del sistema sembri una dimostrazione di forza, ciò che in realtà disvela è la sua debolezza; quella di un modello che, a distanza di non più di 30 anni dalla cosiddetta “fine della storia” non può più porsi come orizzonte di benessere per la maggioranza della popolazione, bensì deve dominare senza curarsi del consenso e mirando solo ad ottenere rassegnazione.
Sta dentro questo quadro la profonda crisi della democrazia, divenuta ostacolo fondamentale all’espansione della sfera di influenza degli interessi finanziari su tutta la società.
Come uscire da questo impasse? La risposta richiederebbe riflessioni approfondite e qui possiamo solo proporre alcuni cenni di percorso.
A partire da una domanda: cosa ingabbia oggi la discussione politica e sociale? Non vi è alcun dubbio: l’accettazione della narrazione dominante basata sulla trappola del debito e sull’ineluttabilità delle politiche liberiste.
E’ questa accettazione a dare spazio alle derive razziste, xenofobe e di guerra ai poveri a cui stiamo assistendo: perché senza mettere in discussione il mantra “C’è il debito, non ci sono i soldi” sarà quasi impossibile arginare il conseguente “Se i soldi non ci sono, prima gli italiani!”, che dà una risposta, semplicistica ma comprensibile, all’enorme senso di frustrazione sociale prodotto dalle politiche di austerità e dalla conseguente frammentazione e perdita del senso di appartenenza sociale.
Senza completare la propria filiera di conflitto, mettendo radicalmente in discussione la questione delle risorse e della ricchezza prodotta, nessuna lotta, per quanto generosa, potrà evitare di finire nell’inefficacia
Un primo percorso per riaprire l’orizzonte delle possibilità è di conseguenza la contestazione della narrazione del debito e del suo inevitabile pagamento, a livello nazionale e territoriale, per mettere finalmente la priorità sulle vite e i diritti delle persone invece che sugli interessi delle lobby bancarie e finanziarie.
Un secondo filone deve andare ad incidere direttamente sulla questione della precarietà, oggi divenuto unico orizzonte di vita delle persone, che si trovano così ad essere sole sul mercato e in diretta competizione l’uno con l’altro: da questo punto di vista, unire la lotta per un reddito universale di base (tutt’altro rispetto alla farsa moralista e da workfare alla tedesca del vicepremier Di Maio) a quella per una drastica riduzione dell’orario di lavoro e della socializzazione del lavoro socialmente necessario diventa ineludibile per rompere la narrazione della differenziazione sociale -italiano/straniero, giovane/anziano, precario/garantito- e aprire la strada a un orizzonte condiviso.
C’è una terza pista da percorrere, figlia legittima del paradigma dei beni comuni e della necessità di una riappropriazione della democrazia nell’epoca della fine del movimento operaio (come soggetto politico che ha attraversato il ‘900) e della profonda modifica del ruolo dello Stato e del “pubblico” in generale: il mutualismo, ovvero la messa in campo di esperienze concrete di riappropriazione del reddito e di una produzione diversa socialmente ed ecologicamente orientata. Ben oltre e contro le trasformazioni avvenute nel cosiddetto “terzo settore”, occorre promuovere un mutualismo conflittuale, che, nel riappropriarsi qui ed ora di una quota della ricchezza sociale prodotta, contesti i modelli esistenti e diventi processo per la nascita di istituzioni nuove basate sull’autogoverno sociale.
Dentro questo percorso di riorientamento sociale delle lotte, ci vengono in soccorso i movimenti che oggi sono in campo con maggiore efficacia: da una parte le lotte ambientali, che, pur nella loro collocazione territoriale specifica, dimostrano come nessun altro modello sia possibile se non superando la concezione estrattivista (di materie prime e di valore finanziario) con cui ci si rapporta alla natura e al territorio; dall’altra il movimento delle donne, l’unico attualmente con un radicamento territoriale e globale allo stesso tempo, che dimostra come, senza una rimessa in discussione del patriarcato quale sistema di potere fra i generi, le lenti con cui si osserva il mondo non potranno che essere costantemente appannate.
Sono tracce su cui iniziare il cammino, ben sapendo che oggi, date per assodate tutte le analisi sul capitalismo come sistema distruttivo della vita, occorre lanciare il cuore oltre l’ostacolo e, dalle tracce, provare a costruire un’altra visione del mondo, capace, come fu nel secolo scorso, di parlare ai cuori e alle menti delle persone, mettendole di nuovo in cammino a milioni in ogni angolo del pianeta.
Perché l’utopia può essere irraggiungibile, ma aiuta a camminare.
VIDEO: Intervento di Marco Bersani durante l’Università estiva di Attac 2018
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 36 di Settembre – Ottobre 2018: “Crisi: 10 anni bastano“