Europa, la fortezza delocalizzata

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Melilla” di Noborder Network (CC BY 2.0)

di Roberto Guaglianone (Attac Saronno)

C’era una volta la fortezza Europa. Buone notizie, dunque? Nemmeno per sogno!

Non bastavano i muri di filo spinato, che blindano migliaia di chilometri ai confini orientali, e la sorveglianza armata delle coste e nel Mediterraneo, fatta da Frontex e dalle criminali Guardie costiere di Libia e altri Stati. Il vecchio Continente respinge (soprattutto) giovani stranieri anche installandosi nei loro Paesi di transito, se non di partenza, verso l’Occidente nostrano. Come nel caso del fortino di Ceuta e Melilla, enclave spagnola in terra marocchina, o del più recente presidio dei Carabinieri della Missione bilaterale di supporto nella Repubblica del Niger (Misin) autorizzata dal Governo italiano in Niger, dove è presente anche un campo per migranti.

Oppure deportandovi le persone in fase di richiesta di protezione internazionale, come insegnano fuori dall’Ue il caso inglese del Rwanda o dentro l’Unione quello italiano dell’Albania.

Delle Ellis Island estere, paragonabili all’esperienza australiana del trattenimento dei richiedenti asilo nell’isola di Nauru e in Papua Nuova Guinea.

La fortezza Europa, quella fisicamente intesa, quindi, si delocalizza, spostandosi sempre più a Sud e a Est, per prevenire i flussi migratori sgraditi (quelli dei poveri). Quelli su cui negli Stati Uniti d’America, con la consueta ruvida chiarezza Donald Trump ha legiferato in proposito, che con l’executive order 13769 ha rinnovato la politica dell’Immigration ban verso determinati paesi di provenienza. O su cui, con la più elegante ferocia, anche il resto dell’Occidente da sempre si attiene, con la politica dei visti e la ’classifica‘ dei passaporti, ovviamente disponibili a prezzi elevatissimi nel mercato legale dei documenti per l’espatrio.

Un provvedimento, quello made in Usa, che – come ci racconta Andrea Cegna da Tapachula, in Guatemala – ha cambiato i confini di Latinamerica: «Le code davanti agli uffici che permettono di avere i documenti per attraversare il Paese o chiedere asilo negli Usa non esistono più, i parchi si sono svuotati, nonostante a centinaia ogni giorno passino dal Guatemala al Messico. La paura di perdere tempo ha fatto cambiare prospettiva, e così i coyotes speculano. Tante e tanti si muovono senza documenti in piccoli gruppi, c’è chi torna a casa perché non vuole rimanere in Messico bloccato. Qui arriva di tutto, non solo centro-americani ma anche africani ed europei».

E così sulle sponde Est e Sud del mar Mediterraneo, i governi di Turchia e Tunisia collaborano attivamente, in cambio di denaro, con l’Ue e/o alcuni Stati membri a ciò delegati, sulla base di accordi di dubbia o inesistente legittimità giuridica internazionale. Con altri governi, non sempre legittimi o internazionalmente riconosciuti, invece non c’è nemmeno bisogno di stipulare accordi formali: si pensi al caso della Libia, gendarme per eccellenza delle migrazioni verso l’Italia, come dimostrano non solo l’ormai storica vicenda del rimpatrio con volo di Stato, disposto dal Governo italiano, del trafficante-torturatore Njeem Osama Al-Masri (capo della polizia giudiziaria libica), ma anche – più recentemente – la segnalazione della presenza nella nostra nazione di Abdel Ghani Al-Kikli, capo del Ssa (Stability Support Apparatus), milizia accusata da più parti di crimini contro l’umanità e abusi vari.

Ma se questo è solo un accenno alle principali innovazioni  dell’esternalizzazione delle frontiere fisiche, stiamo per assistere alla sua codificazione e ampliamento attraverso l’imminente aggiornamento normativo sulle migrazioni, a un solo anno di distanza dal Patto europeo su immigrazione e asilo. Il recente Regolamento europeo per gli hub di rimpatrio, ovvero i centri di detenzione all’estero per cittadini stranieri destinatari di provvedimenti di rimpatrio coatto, permetterà ad esempio di riciclare il centro costruito in Albania dal Governo italiano in questa nuova forma, a seguito dell’evidente fallimento della sua utilizzabilità per i richiedenti asilo.

Senza, per questo, decretare la fine del progetto precedente, dato che continua il lavoro di stesura – a livello continentale – della lista dei cosiddetti Paesi terzi sicuri, che finora si è arenata in ogni Stato membro di fronte a una Convenzione di Ginevra che per definizione ne esclude la presenza. Un lento e certosino lavoro ai fianchi della normativa transnazionale, che ha l’obiettivo di andarla a superare in modo da sdoganare e liberalizzare definitivamente la gestione conto terzi della prigionia dei migranti.

Come cambia, dunque, la sempre più blindata fortezza Europa? Per renderne bene l’immagine, proviamo a fare l’esercizio, sempre utile, di calarci nei panni della persona che decide, o è forzata, a migrare. Immaginiamola in arrivo dall’Africa subsahariana.

La prima tappa della fuga, spesso organizzata in proprio, lo condurrà a una delle grandi centrali di partenza verso il deserto del Sahara, come può essere Agadez, nel cuore del Niger, dopo un primo passaggio di frontiera senza documenti, in cui una prima parte di denaro viene elargita alle guardie di frontiera. Agadez è una delle grandi piazze africane in cui si organizzano i viaggi che attraversano il deserto del Sahara, e trova i suoi equivalenti americani nella citata Tapachula e asiatici a Peshawar, in Pakistan nei pressi del confine afghano.

E proprio qui si colloca il primo nuovo ostacolo che l’Europa ha collocato sul percorso dei migranti: le missioni internazionali dei propri soldati– formalmente presenti sul territorio con compiti di addestramento delle forze armate locali – che possono anche essere impiegate in funzione di pattugliamento congiunto delle rotte migratorie, come numerose fonti hanno testimoniato in diverse località africane.

Quindi, i grandi camion stracarichi di persone che partono da Agadez arrivano normalmente alle porte degli Stati da cui le persone compiono il viaggio verso la destinazione finale: i cosiddetti Paesi di transito, nei quali sono ormai quasi onnipresenti le strutture che gli Stati occidentali – europei inclusi – hanno commissionato ai loro partner submediterranei: dai tremendi lager libici (che inaugurano la loro presenza già poco oltre la linea del confine con il Niger e con il Ciad: si pensi a quello di Sebha) alle Gaziantep o Istanbul stessa in Turchia, che dal 2015 rappresentano le prigioni dorate per i milioni di siriani sfuggiti a suo tempo alla guerra civile non ancora terminata anche dopo la fine della dinastia Assad; ma anche le Tijuana del confine Usa-Messico.

Fino a qui nulla potrebbe cambiare per le rotte migratorie, compreso il rischiosissimo passaggio del confine: sia esso il game dalla rotta balcanica, sorvegliatissima dalle feroci polizie dei paesi in predicato di entrare nell’Ue, che guadagnano ’punti Europa’ sulla pelle delle persone; oppure il mare Mediterraneo, gestito da Frontex e dalle guardie costiere della sua costa Sud, ormai arrivato a quota 45.000 morti ufficiali; o anche il tratto di oceano Pacifico solcato dalle imbarcazioni di chi si dirige in Australia; o, infine, il passaggio del Rio Grande (Rio Bravo per i messicani) che divide tanti latinos dal presunto sogno americano.

Quanto invece potrebbe rappresentare un ulteriore incubo per chi riesce ad approdare sulle nostre coste non è solo rappresentato da un sistema di accoglienza integrata, quel già virtuoso Sprar-Sai, sempre più volutamente depotenziato dagli ultimi governi, certamente insufficiente ad accogliere tutti i richiedenti asilo in arrivo, parcheggiati invece nei Centri di accoglienza che poco o nulla fanno in funzione della loro presenza sul territorio; ma anche dalla possibilità di essere deportati in altri Stati per l’espletamento della domanda di protezioni internazionale: prospettiva che, se oggi subisce ancora uno stop importante dalla magistratura per effetto del necessario rispetto delle convenzioni internazionali vigenti, da un domani molto vicino potrebbe diventare – in Albania come in Rwanda – l’abituale destinazione di chi non è più titolare di permesso di soggiorno valido e viene inviato in un Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) non necessariamente situato sul territorio nazionale del paese in cui la persona è stata assoggettata alla deportazione coatta verso il paese d’origine, per il solo fatto di aver commesso un reato amministrativo.

E così come la corsa ciclistica del Giro d’Italia si connota, negli ultimi dieci anni circa, per la bislacca partenza da località estere per banali motivi commerciali, così per ancora più gravi motivazioni di guerra alle migrazioni (leggi: alle persone migranti), il giro del mondo di queste ultime potrebbe terminare – prima del rientro forzato sul suolo natio – in un territorio diverso da quello in cui avevano pensato di poter trovare accoglienza e, miraggio sempre più lontano, integrazione.

P.S.

Proprio mentre chiudiamo questo articolo giunge la notizia della decisione del Consiglio dei ministri italiano di riciclare il Centro per richiedenti asilo edificato in Albania in uno dei Cpr che le recenti decisioni a livello europeo vanno ad autorizzare: ecco compiersi anche a livello ufficiale l’esternalizzazione della fortezza Europa. Contemporaneamente, nella direzione di restrizione all’accesso – ancor prima che alla permanenza – dei rifugiati sul proprio territorio, va letta la decisione delle autorità polacche di non ricevere ‘temporaneamente’ richieste d’asilo dal confine con la Bielorussia: un fatto inaudito, il cui precedente recente era costituito dalla decisione di sospendere la ricezione di richieste d’asilo da parte di cittadini siriani adottata da parte di alcuni governi europei, italiano incluso, nella fase successiva alla destituzione, a Damasco, di Bashar al-Assad dal potere.

 

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 54 di Aprile- Maggio 2025: “L’Europa che non c’è

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