di Stefano Risso
Fausto Gianelli, avvocato dei Giuristi Democratici, nel suo intervento all’Università Estiva ci ha illustrato con competenza e passione la differenza tra l’aspetto formale e quello sostanziale della Democrazia, ricordandoci la necessità della difesa della democrazia a partire dalla difesa della sostanza stessa della democrazia. Ora dobbiamo chiederci perché la Democrazia, dal punto di vista sostanziale, è in una crisi così profonda. Ci troviamo di fronte ad un processo di trasformazione della società di stampo decisamente oligarchico e forse dovremmo parlare di un autentico processo rivoluzionario purtroppo in senso oligarchico. Rivoluzionario e non reazionario, perché la creazione di un’oligarchia politica è stata preceduta dalla formazione di un’oligarchia economica e di conseguenza la sua presa del potere politico effettivo corrisponde al ruolo che, nella società, ha concretamente usurpato da tempo.
Negli ultimi trent’anni è avvenuto un trasferimento di risorse dal basso verso l’alto su scala planetaria e in una dimensione, anche in relazione alla ricchezza globale esistente, mai avvenuta prima nella storia umana. Questo trasferimento di ricchezza a favore del 1% della popolazione è stato ampiamente illustrato da numerose fonti, vale la pena di ricordarne almeno due: i recenti rapporti di Oxfam e la poderosa trattazione di Piketty. Le proposte di Piketty ovviamente possono, naturalmente, essere oggetto di valutazioni contrastanti; ma tutti dovremmo riconoscere il ruolo fondamentale della sua opera di raccolta ed ordinamento di una ineguagliata massa di dati. Sui numeri non si può opinare.
Come pure è da notare che il riferimento al 1% non è facile demagogia: i percentili immediatamente successivi, sia di ricchezza che di reddito – occorre sempre tenere distinte le due serie – pur trovandosi in un’indiscutibile posizione di vantaggio rispetto al resto della popolazione hanno semplicemente, in linea di massima, beneficiato della crescita di ricchezza limitata alla quota percentuale di ricchezza già in loro possesso all’inizio dell’accelerazione, ormai trentennale, del processo di concentrazione della ricchezza1.
Già nel 1913 il giurista Luis Brandeis colse il problema della trasformazione oligarchica della società per effetto del potere finanziario (quest’ultimo anche in contrasto con la cultura strettamente industriale) e non ebbe paura a utilizzare esplicitamente il termine Oligarchia, facendolo discendere dalla prassi dell’interlocking directorate2. É curioso che le istituzioni che furono oggetto degli strali di Brandeis all’inizio del secolo scorso siano ancora oggi presenti e aggressive nei confronti della Democrazia, come la banca J. P. Morgan, resasi celebre anche per il suo noto paper di attacco alle costituzioni europee nate nel nostro continente dopo la liberazione dal fascismo.
È molto interessante il recentissimo studio di un accademico di Utrecht3 che pare individuare la ripetizione, in differenti contesti storici e in differenti epoche storiche, del seguente schema: apertura dei mercati, crescita economica, intercettazione da parte degli strati superiori della società di una quota sempre crescente della crescita economica, trasformazione dell’oligarchia economica in oligarchia politica, stagnazione economica e declino.
In che modo l’oligarchia economica usurpa la democrazia sostanziale trasformandosi in oligarchia politica?
Per rispondere a questa domanda occorre partire da quanto Hans Tietmeyer affermò con protervia vent’anni or sono, come presidente in carica della Bundesbank,: “i Governi finalmente abdicano alla sovranità”, democratica aggiungiamo noi, “per sottoporsi al suffragio quotidiano dei mercati”.
Già nel 1996, il grande Cancelliere Helmut Schmidt rivolse a Tietmeyer, dalle colonne di Zeit, questa pesante critica: “La Bundesbank non è uno stato nello stato”, concludendo: “l’effetto dei vostri argomenti rafforzerà l’ipocondriaca paura tedesca di ogni innovazione, i vostri propositi desiderano essere positivi : i risultati sono negativi”.
Da allora sono innumerevoli, come ci ha illustrato la relazione precedente, gli esempi si sottrazione di sovranità nei confronti degli stati a favore di altri “luoghi” della decisione politica. Questa trasformazione oligarchica e la perdita di sovranità dello stato moderno (finora unico “luogo” della democrazia sperimentata) porta a dover prendere in considerazione la democrazia come conflitto dal basso che attraversa tutta la storia e non come mera rappresentanza formale della cittadinanza a partire dal XIX secolo, che si afferma in quello stesso stato moderno, non necessariamente nazionale, costituitosi a partire dal 1600 (con la fine della guerra dei 30 anni come data convenzionale della generalizzazione dello stato sovrano) e contemporaneo alle prime istituzioni del capitalismo moderno, come le banche internazionali, le borse titoli in sessione permanente e le società per azioni (tutte realtà nate in Olanda nei primi anni del XVII secolo).
Questa consapevolezza, come quella della trasformazione sostanziale del concetto di Stato (non più luogo esclusivo della sovranità), può essere il punto di partenza per esplorare il terreno ad oggi inesplorato, dei futuri, ma già attuali, conflitti democratici: ossia per il Popolo contro l’Oligarchia. Conflitti che dovranno affiancare differenti ambiti e non solo, come un tempo, privilegiando la dimensione nazionale; ma operare in un ventaglio di scenari a partire dalla difesa di un bene comune a livello locale fino a grandi campagne a livello continentale o globale.
Queste riflessioni sono doverose a fronte di una diffusa forma di “nostalgia” dello stato nazionale (inteso come il moderno stato sovrano) anche nel movimento alter-mondialista; se è umanamente comprensibile la riluttanza ad abbandonare un abito mentale formatosi in successive generazioni di militanti, questo non di meno potrebbe portare all’ineffettualità e all’irrilevanza politica.
Un ulteriore tema di analisi, di fronte a una crisi forse irreversibile dell’attuale modello di democrazia, è oggi, inevitabilmente, il cosiddetto Populismo. La vulgata maggioritaria oggi, tende a descrivere il cosiddetto populismo come un’ondata di imbarbarimento in cui si sono lasciate trascinare le masse popolari per una loro intrinseca debolezza culturale e morale. Può sembrare una descrizione caricaturale delle opinioni prevalenti nei media e nelle accademie del mondo un tempo definito progressista; ma a ben vedere c’è poco di caricaturale in quest’atteggiamento, che ha rinunciato alla critica delle strutture sociali esistenti per indirizzarla verso più facili bersagli.
Il cosiddetto populismo è solo una risposta alla trasformazione oligarchica della società; ma deriva dalla sofferenza di quegli estesi gruppi sociali che hanno costituito proprio la base delle democrazie “moderne e progressive” come noi siamo stati abituati a considerarle. Uno studio dell’Università di Princeton4 illustra l’impennata di mortalità (in ogni fascia di età) nella popolazione bianca non laureata negli Stati Uniti tra il 1999 e il 2016 in confronto ad altri gruppi etnici – che riescono comunque a beneficiare della caduta dei tassi di mortalità – e il rapporto tra incremento di mortalità.
In particolare una tabella permette di comprendere, con la freddezza dei numeri, questa sofferenza e spiega l’“irresistibile ascesa “ di Trump.
Ascesa difficilmente contenibile con richiami moralistici che ignorano deliberatamente la trasformazione oligarchica delle nostre società. Non dobbiamo però limitare la nostra visione agli angusti spazi nostrani e a qualche paese che ci assomiglia. Il pericolo di una frattura culturale nelle nostre società democratiche (o almeno ragionevolmente tali fino a un passato molto recente) causato dal divorzio delle élite dal resto della società, venne già denunciato da Christopher Lasch5, uomo vicino al Presidente Carter all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso. Si registrano voci che riprendono questi temi6 con puntuali riferimenti alla situazione attuale o individuano nel fenomeno la caduta dell’egemonia culturale neo-liberale7.
Bisognerà ascoltare l’originalità di queste voci, ben lontane dal moralismo ipocrita delle élite ammantate di progressivismo, per comprendere appieno la realtà con cui dobbiamo confrontarci; ma soprattutto occorrerà ascoltare con ancor più attenzione la sofferenza della parte maggioritaria della popolazione, che ormai le stesse statistiche demografiche ed epidemiologiche ci stanno mostrando nella sua cruda realtà.
Se riusciremo a farlo potremo affrontare serenamente le non lievi difficoltà che il nuovo secolo ci riserva.
Nota di redazione:
A conferma di quanto esposto, in fase di redazione di questo numero, abbiamo notizia dei dati ISTAT definitivi sull’aspettativa di vita in Italia del 2017.
Dopo il brusco calo del 2015 rispetto al 2014, nel 2017 ci troviamo di fronte ad un nuovo calo rispetto al 2016: da 82,8 anni a 82,7 (-0,1).
Limitatamente alla popolazione femminile il dato (84,9) è addirittura inferiore al dato del 2014 (85,0).
Due flessioni a distanza così ravvicinata sono un unicum in tempo di pace.
L’informazione è stata totalmente ignorata dai media main stream.
Fonte: ISTAT
Note:
[1] Non inganni la diffusione del benessere in paesi come la Cina: anche in quei paesi l’indice di Gini (che misura la diseguaglianza) è cresciuto e la parte di crescita andata a queste nuove middle classes è una parte estremamente ridotta della crescita delle intere economie di quei paesi.
[2] “The term ”Interlocking directorates” is here used in a broad sense as including all intertwined conflicting interests, whatever the form, and by whatever device effected” L. Brandeis “Other people’s money, and how the bankers use it” -1913
[3] Bas van Bavel “The Invible hand ?” Oxford University Press 2016
[4] Anne Case e Angus Deaton “Mortality and Morbidity in the 21st century” 2017
[5] Christopher Lasch “la ribellione delle Élites e il tradimento della Democrazia” Feltrinelli (tit. or. The Revolt of the Elites: And the Betrial of the Democracy – 1994)
[6] David van Reybrouck “Für einen anderen Populismus – Ein Plädoyer” (tit. or. “Pleidooi voor populisme”) – Wallstein Verlag 2017
[7] Chantal Mouffe “For a left Populism” Verso 2018
VIDEO: Intervento di Stefano Risso durante l’Università estiva di Attac 2018
Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 36 di Settembre – Ottobre 2018: “Crisi: 10 anni bastano“