di Matteo Bortolon
Riesplode il caso Whirlpool: nonostante l’accordo siglato con Di Maio nel 2018 la multinazionale statunitense torna ad affermare che ad ottobre 2020 chiuderà i battenti.
Il ministro Patuanelli, a capo del Ministero dello Sviluppo Economico del governo Conte II ha ricevuto una eredità complessa: circa 150 scenari di crisi aziendali riguardanti circa 250 mila posti di lavoro. Non tutti iniziati dal governo gialloverde, visto che ogni singola vicenda dura in media 28-30 mesi. Giovedì 30 gennaio all’uscita dalla negoziazione andata male, i sindacalisti sono stati accolti da fischi e tafferugli.
Oggi molti danno la colpa a Di Maio. Ma è un po’ facile: nell’accordo siglato il 25 ottobre 2018 sta scritto nero su bianco: “Il sito [di Napoli] conferma la sua missione produttiva di Lavatrici a carica frontale di alta gamma. […] Il totale degli investimenti previsti per il sito nel triennio 2019 -2021 sarà di circa 17 milioni di euro, tra prodotto, processo, ricerca e sviluppo.” Fra le parti firmatarie oltre al Ministero c’erano anche Confindustria e le Regioni Campania, Lombardia, Marche, Toscana, oltre ai sindacati.
Il gruppo Whirpool è una multinazionale statunitense quotata alla borda di New York, e potentemente finanziarizzata. Ha emesso obbligazioni (il che significa chiedere soldi in prestito al mercato privato dei capitali) sulla borsa di Francoforte. Ha acquisito nel 2014 il gruppo italiano Indesit, a sua volta quotato alla borsa di Milano.
Oggi in spregio alle promesse fatte, come molte altre volte in vertenze simili, minaccia di delocalizzare, cioè di smontare tutto e portare la produzione dello stabilimento napoletano in Polonia.
Nonostante la collera il ministro Patuanelli deve ammettere che lo Stato non ha grandi strumenti per convincere una multinazionale a restare sul territorio.
Tale debolezza che è oggettiva, risiede in diversi processi che cambiando la morfologia industriale sanciscono la supremazia del capitale finanziario: da un lato la libera circolazione dei capitali che si è fatta sempre più intensa dall’inizio degli anni Ottanta; dall’altra la struttura interna dei gruppi industriali che ne ha rafforzato la componente finanziaria. La convergenza di tali processi rende il capitale più mobile e svincolato, tagliando drammaticamente le unghie agli Stati che sono essi stessi causa della propria impotenza. Va anche detto che la Ue ha costituzionalizzato tale principio nei trattati su cui si fonda rendendo irreversibile il processo, a meno di non alterare le stesse basi dell’edificio comunitario – avvicinandosi ad una sua dissoluzione rispetto alla sua forma attuale.
In modo timido, inizia a serpeggiare una parola che la storia pareva aver relegato nel dimenticatoio: nazionalizzazione. Strumento che venne usato a favore delle banche a ridosso della crisi, ma col presupposto di riprivatizzare il più presto possibile.
Oggi la UE, nonostante la Brexit, nonostante i pessimi frutti della austerità nel sud Europa, conferma la propria vocazione al capitale con la Unione del Mercato dei capitali, un processo che dovrebbe facilitare la finanziarizzazione delle imprese. Quale apocalisse del lavoro dobbiamo ancora attendere prima che si capisca la necessità di una inversione radicale di rotta?
Pubblicato sul Il Manifesto del 1.2.2020