La società che vogliamo inizia ora

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di Marco Bersani

Sono tre i grandi nodi che attraversano quest’epoca. Ciascuno di essi, per poter essere affrontato, richiede un cambio di sistema.

Il primo nodo è la crisi climatica già in corso, con tempi e ritmi che richiedono una svolta immediata. E’ un nodo che pone subito l’insopprimibile alterità tra ciò che è necessario, ovvero “stabilizzare il clima al massimo che è ancora possibile, mobilitando tutti i mezzi che si conoscono, indipendentemente dal costo” e ciò che per l’attuale modello è compatibile, ovvero “cercare di salvare il clima nella misura in cui questo non costi niente, o non troppo, e nella misura in cui questo consenta alle imprese di ricavare profitti”.

Poiché per la prima volta nella storia siamo di fronte a una crisi ambientale non dettata dalla penuria e dalla scarsità, bensì determinata dalla sovrapproduzione e dal sovraconsumo, ovvero dal modello capitalistico, il cambio di paradigma si impone in maniera evidente.

Il secondo nodo riguarda la diseguaglianza sociale determinata dalla concentrazione di ricchezza nelle mani di sempre meno persone, portata avanti dai processi di iper-finanziarizzazione del modello capitalistico: un processo di costante estrazione di valore che, attraverso la trappola del debito e le politiche di privatizzazione, ha investito negli ultimi trent’anni l’economia, la società, la natura e l’intera vita delle persone,

Crisi climatica e diseguaglianza sociale sono inoltre le cause fondamentali dei processi di migrazione, che, in mancanza di un cambio di rotta, assumeranno dimensioni epocali già nei prossimi decenni.

Il terzo nodo riguarda i nuovi processi di innovazione tecnologica della produzione agricola, industriale e scientifica riassunti nel termine “industria 4.0”. Si tratta di un processo che, se governato dall’economia capitalistica, produrrà, da una parte una nuova espulsione di massa dal mondo del lavoro, mentre, dall’altra approfondirà le dimensioni di precarizzazione, sfruttamento e schiavitù per la parte di popolazione che ancora ne avrà accesso. Siamo di fronte ad una divaricazione sempre più accentuata fra produzione di ricchezza e lavoro, fra crescita e occupazione, al punto che diviene dirimente non solo rovesciare i rapporti di forza, bensì ridefinire l’intera dimensione del lavoro e del reddito.

Ciascuno di questi grandi nodi richiama la crisi sistemica del modello capitalistico, incrinandone non tanto la capacità di affrontarla dal punto di vista dell’accumulazione di profitti (clima, debito, precarietà e migrazioni costituiscono enormi praterie di business), bensì mettendo radicalmente in discussione l’approccio ideologico di modello basato sulla democrazia e volto a garantire il benessere alla grande maggioranza della popolazione. Il modello capitalistico per potersi perpetuare ha stringente necessità di mettere a valore finanziario tutto quello che sinora era fuori dal mercato e, per farlo, non può che comprimere sempre più diritti e democrazia.

Se sono sufficientemente chiare le contraddizioni del modello capitalistico, non altrettanto sembra esserlo la necessità di iniziare a costruire un’alternativa di sistema. Eppure la sua urgenza deriva dal fatto che, finché un nuovo orizzonte politico e culturale di principi, di governo della società, di creazione della ricchezza, di concezione dei rapporti sociali, di trasformazione delle relazioni uomo/donna e uomo/natura, di riappropriazione della democrazia rimarrà inarticolato e non riuscirà a generare una mobilitazione di massa, l”imprinting’ di questi decenni continuerà a far sembrare le idee neoliberali come unica saggezza convenzionale che l’opinione pubblica ha più facilità a percepire e a cui finisce per aggrapparsi.

Proviamo allora a delineare alcune tracce della società che vogliamo.

Un primo percorso riguarda la riappropriazione della ricchezza sociale prodotta. Significa sin da subito rompere la trappola artificiale del debito che attanaglia la gran parte della popolazione mondiale rendendone possibile l’espropriazione di diritti, beni comuni e democrazia. Per farlo occorre una mobilitazione sociale che chieda l’annullamento di tutti i debiti illegittimi e odiosi, per liberare risorse in favore delle politiche necessarie al cambio di sistema.

Accanto a questo, occorre rivendicare la socializzazione del sistema bancario, riportando il mercato dall’empireo delle divinità inconoscibili alla terra delle donne e degli uomini, e di politicizzarlo, ovvero metterlo al servizio dell’interesse generale, dopo decenni nei quali è stata la politica ad essere trasformata in merce al servizio dei grandi capitali finanziari.

Ne diviene stretta conseguenza il controllo democratico dei movimenti di capitale, a cui dev’essere impedita la possibilità di indirizzarsi senza vincoli laddove maggiormente gli conviene, determinando a proprio piacimento le scelte di politica economica e sociale degli Stati.

Sono queste le premesse per avviare una radicale redistribuzione della ricchezza prodotta, ponendo l’orizzonte dell’uguaglianza di nuovo fra gli obiettivi delle scelte collettive.

Un secondo percorso è dettato dalla risposta alla crisi climatica in corso. La necessaria inversione di rotta deve partire da un presupposto: ‘come, cosa, dove e per chi produrre’ non può essere più lasciato ai liberi spostamenti dei capitali finanziari sul pianeta alla ricerca delle migliori condizioni per la valorizzazione degli investimenti, relegando il protagonismo dei cittadini consapevoli alla sola scelta ‘a valle’ del processo, decidendo cosa consumare.

Occorre ridefinire la ricchezza sociale e decidere collettivamente di quali beni e servizi abbiamo bisogno, in quale ambiente vogliamo vivere, cosa e in quali quantità vogliamo produrre, come ci redistribuiamo il lavoro necessario, la ricchezza prodotta, i tempi di vita e di relazione sociale, nonché la preservazione dei beni per le generazioni future.

Questo comporta la rivendicazione della riappropriazione sociale e della gestione partecipativa di tutti i beni comuni, la cui necessità per l’esistenza e la dignità della vita li pone automaticamente fuori dalle leggi del mercato.

Questo comporta altresì la necessità di socializzare i settori strategici dell’economia e della società, ovvero quelli che possiedono alcune caratteristiche importanti ai fini dell’interesse generale, che potremmo suddividere in:

  1. quelli che si occupano della produzione di un bene di consumo o di un servizio primario per i bisogni della popolazione (ad es. i prodotti alimentari, l’acqua, l’energia, la scuola, la sanità, i servizi sociali, l’edilizia abitativa, il riassetto idrogeologico);
  2. quelli che si occupano di un bene o di un servizio, senza l’uso del quale una parte considerevole delle altre attività economiche non sarebbero possibili (ad es. i trasporti, l’energia, le telecomunicazioni, la fibra ottica);
  3. quelli legati a scelte d’investimento di lungo periodo di carattere scientifico, tecnologico e culturale, in grado di modificare, nel tempo e in maniera significativa, la vita materiale e spirituale della popolazione (si tratta in questo caso della ricerca in tutte le sue declinazioni, comprese quelle umanistiche).

Un terzo percorso riguarda la relazione fra vita, lavoro e reddito che la nuova rivoluzione tecnologica trasformerà profondamente. Poiché stiamo assistendo a una sempre più accentuata divaricazione tra finalità delle scelte economiche e obiettivo della piena occupazione. occorre affermare un nuovo principio: il diritto al reddito non può dipendere dall’attività lavorativa, bensì deve divenire un diritto fondamentale legato all’esistenza.

Con un reddito garantito universalmente, cesserebbero tutti i ricatti sulle condizioni di lavoro e verrebbe meno l’ostacolo principale alla chiusura immediata di tutte le produzioni energivore, inquinanti e ambientalmente insostenibili, su cui si fonda l’accumulazione finanziaria all’interno del modello capitalistico.

Naturalmente poiché, in una fase di transizione, ogni misura pensata porta con sé una strutturale ambiguità, vanno respinte tutte le teorie che pensano al reddito di cittadinanza come contraltare di una privatizzazione generalizzata dei servizi pubblici.

La società che vogliamo non può essere basata su un insieme di relazioni privatistiche e contrattualizzate, per cui il cittadino possessore di reddito lo usa per acquistare individualmente i servizi di cui necessita; il concetto di reddito deve comprendere l’accesso, gratuito e universale, a tutti i beni comuni e ai servizi pubblici che ne garantiscono la fruizione.

Su questa base, può essere ridefinito il ruolo del lavoro, che va pensato come insieme di attività unicamente orientate all’utilità ecologica e sociale, superando la storica separazione fra produzione e riproduzione sociale, e considerando tutte le attività come contributo individuale e collettivo alla costruzione di una società dignitosa per tutte e tutti.

Per contrastare un orizzonte che vedrà in campo una minoranza dedita al lavoro e ipersfruttata e una maggioranza destinata alla disoccupazione o alla sottoccupazione permanente, occorre mettere in campo l’obiettivo di una drastica riduzione dell’orario di lavoro e di una socializzazione ampia del lavoro necessario, in modo che l’accesso al lavoro non sia l’esito di una feroce competizione fra le persone, bensì una redistribuzione dell’attività socialmente necessaria, dentro un orizzonte che subordina il valore di scambio al valore d’uso, e organizza la produzione in funzione dei bisogni sociali e delle esigenze di salvaguardia dell’ambiente.

Ciò che sin qui abbiamo schematicamente delineato sono tracce e obiettivi per una società  alternativa al modello capitalistico. Un modello che, nella sua fase di finanziarizzazione spinta, si pone l’obiettivo della valorizzazione e  mercificazione dell’intera vita delle persone, superando l’antica divaricazione fra le attività umane, tra produzione economica  e riproduzione sociale, tra attività manuali e attività relazionali.

Un modello che obbliga chi vi si oppone a produrre un salto di paradigma, capace di modificare anche le relazioni storicamente determinate fra le persone. E’ a fronte di questa trasformazione biopolitica del capitalismo, che assume inedita rilevanza l’analisi e la pratica femminista: perché se il conflitto è fra la Borsa e la vita, chi più del movimento delle donne, che ha sempre impostato la propria riflessione teorica e pratica a partire dai corpi, dalle soggettività, dalle relazioni -dalla vita, appunto- può indicare, non solo l’irriducibilità della stessa al dominio dei mercati, ma anche la pluralità dei terreni di liberazione dall’oppressione?

Come si può intuire, diviene trasversale a tutti questi percorsi una radicale rivendicazione di democrazia sostanziale, come processo mai concluso, ma con radici saldamente ancorate nell’appartenenza sociale, nel ‘comune’ mutualistico e solidale, nell’uguaglianza (e differenza) delle persone.

Una rivoluzione appena iniziata.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 41 di Settembre – Ottobre 2019. “La società che vogliamo

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