Il ritorno del partito

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di Paolo Gerbaudo

E’ un luogo comune osservare come l’epoca post crisi sia definita dall’ascesa di movimenti populisti sia sul fronte della sinistra che su quello della destra, nel mezzo di una crescente polarizzazione politica. Tuttavia, non è stata sufficientemente sottolineata la centralità del partito nell’arena politica. In Occidente, e in Europa in particolare, stiamo assistendo ad una rinascita del partito politico. Sia i vecchi partiti, come quello Laburista in Gran Bretagna, che quelli nuovi, come Podemos in Spagna e la France Insoumise, hanno visto una crescita enorme nel corso degli anni, ponendosi tra l’altro al centro di importanti innovazioni organizzative. Dal momento che per molti anni sociologi e politologi hanno concordato nel preannunciare la perdita del primato del partito politico in una società digitale sempre più globalizzata e diversificata, questa rinascita della forma partitica è degna di nota. In effetti, l’attuale ritorno della sinistra ha di fatto smentito queste previsioni. La tecnologia digitale non ha rimpiazzato il partito. Gli attivisti l’hanno piuttosto utilizzata al fine di sviluppare meccanismi innovativi per fare appello ai cittadini, pur riaffermando la forma partitica quale strumento principale per la lotta politica.

Previsioni maldestre

Il fatto che i partiti politici stiano tornando nuovamente alla ribalta, è innanzitutto evidente dal crescente numero di membri all’interno dei partiti, una chiara svolta rispetto al progressivo calo di adesioni a cui hanno dovuto assistere molti partiti storici europei all’inizio degli anni Ottanta. In Gran Bretagna, il Partito Laburista sta per raggiungere i 600.000 membri, dopo aver raschiato il fondo nel 2007, alla fine del mandato di Tony Blair, con appena 176.891 adesioni. In Francia, la France Insoumise di Jean Luc Melenchon conta 580.000 sostenitori, rendendolo il più grande partito della Francia, dopo appena un anno e mezzo dalla sua fondazione. In Spagna, Podemos, fondata nel 2014, ha più di 500.000 membri, più del doppio rispetto al Partito socialista.

Ciò sembra contrastare con la diagnosi della fine del partito, legata all’idea che nel mezzo dell’estrema differenziazione e individualizzazione della “società delle reti” descritta dal sociologo Manuel Castells, in cui vi è sempre più spazio per l’autonomia e la flessibilità individuale, tutte le organizzazioni si accosterebbero alla morfologia orizzontale della rete, a scapito della struttura verticale della piramide che ha sempre prevalso nelle organizzazioni dell’era industriale.

Questa sociologia dalla complessità, personalizzazione e disintegrazione di classe estreme veniva accompagnata dalla persuasione che in un mondo globalizzato, il partito avrebbe perso importanza per la semplice ragione che lo stato-nazione – l’oggetto di conquista tradizionale nonché quadro dell’operazione del partito – diminuiva il suo potere a favore di istituzioni governative globali.

Il sospetto anti-partito

A ciò si accompagna un forte sentimento anti-partito, che ha modellato la formazione politica degli attivisti di sinistra delle generazioni passate, caratterizzata dalle convinzioni sul ruolo del partito nella produzione di torsioni autoritarie: il nazismo e lo stalinismo hanno dimostrato fino a che punto il partito avrebbe potuto trasformarsi in una crudele macchina incline alla manipolazione dei suoi membri e all’obbligo dell’obbedienza incondizionata.

Ma il vero problema era il modo in cui questa critica giustificata era diventata alleata di un rancore liberale di vecchia data nei confronti del partito politico, sostenuto da una paura antidemocratica delle masse organizzate e delle loro rivendicazioni di controllo democratico e di ridistribuzione economica.

In epoche neoliberali, questa preoccupazione per la libertà individuale è tornata ad essere attuale nella proclamata celebrazione dello spirito imprenditoriale e della spontaneità di forze di mercato deregolamentate, facendo sembrare qualsiasi forma di organizzazione collettiva come una sorta di impedimento illegittimo. Il partito politico, come lo Stato, viene dunque rappresentato come una sorta di grigio e burocratico Leviatano che minaccia la libertà, l’espressione autentica, la tolleranza, e il dialogo. Questo pensiero unico è stato assorbito inconsapevolmente da molti movimenti antiautoritari emersi a seguito delle proteste studentesche del 1968, che hanno fatto proprie le denunce dei neoliberali nei confronti delle organizzazioni collettive e della loro burocrazia, nel nome dell’autonomia e della libera espressione personale.

Oggi gran parte del disprezzo popolare nei confronti del partito politico è esso stesso il prodotto del modo in cui negli anni Novanta e Duemila questa ideologia ha facilitato la trasformazione dei vecchi partiti di massa dell’epoca industriale in nuovi “partiti liquidi”, progettati come i “partiti professionali/elettorali” americani. Questi partiti, il cui cinismo è ben chiaro nell’immaginario comune grazie a serie TV come House of Cards e The Thick of It, hanno sostituito i vecchi burocrati con giornalisti di regime, e i quadri del partito hanno lasciato spazio a consulenti di sondaggi e di comunicazione.

Organizzare le masse popolari

Perché, dunque, il partito politico sta facendo il suo ritorno, nonostante tutte queste critiche?

Questa rinascita del partito è il riflesso del fondamentale bisogno politico della forma partitica, specialmente in tempi di crisi economica e di crescente disuguaglianza.

Anni di neoliberalismo hanno convinto molti che i loro bisogni materiali potevano essere soddisfatti grazie al proprio sforzo individuale, allo spirito imprenditoriale, alla competizione, all’interno di un presunto sistema meritocratico. Ma il fatto che il capitalismo finanziario abbia fallito nel creare benessere economico, ha indotto molti a pensare che l’unico modo per promuovere i propri interessi sia quello di unirsi ancora una volta in un’associazione politica organizzata.

Questa reazione quasi istintiva alla difficoltà economica serve a dimostrare il ruolo permanente del partito, così come i mezzi attraverso cui un’unità di classe può realizzare una volontà collettiva per diventare una forza politica. Questa idea, infatti, è stata per lungo tempo discussa all’interno della tradizione marxista; dall’analisi di Karl Marx e Friedrich Engels del Manifesto del partito comunista al dibattito di Lenin sul partito di avanguardia, alle osservazioni di Antonio Gramsci sul “moderno principe” nei Quaderni del carcere, fino ad arrivare alle riflessioni di Nicos Poulantzas in Political Power and Social Classes. Il partito di avanguardia leninista e il partito di massa socialdemocratico hanno fornito diverse soluzioni per affrontare questa missione. Tuttavia, entrambi alla fine hanno innalzato un’immensa burocrazia per adempiere al compito descritto da Gramsci: “centralizzare, organizzare e disciplinare” la massa dei sostenitori.

Oggi, siamo di fronte ad un’economia digitale che sta dividendo ed isolando i lavoratori tramite l’outsourcing, la riduzione del personale, la supervisione algoritmica da remoto – visibile, ad esempio, in aziende come Uber e Amazon. In questo nuovo contesto, la necessità che il partito operi come un “aggregato strutturale”, riunendo il potere di molti individui isolati, è di fondamentale importanza.

Nell’epoca post-crisi, i partiti politici devono sicuramente porsi l’obiettivo della rappresentanza politica, di cui si sente di nuovo evidentemente bisogno. Inoltre, devono anche compensare il fallimento comparativo di altre forme di rappresentanza sociale, per dar voce agli interessi dei lavoratori e richiedere concessioni ai datori di lavoro.

Evidentemente, il “principe ipermoderno” (per distinguerlo dal “moderno principe” descritto da Gramsci) è molto diverso dal partito burocratico dell’era industriale, sebbene abbia tentato in modo simile di costruire spazi di partecipazione di massa. Come si è notato bene nelle nuove formazioni come Podemos e France Insoumise, le organizzazioni politiche in ascesa spesso hanno una struttura centrale di comando molto minimale e rapida, paragonabile allo “slanciato” modello operativo delle imprese start-up dell’economia digitale.

Queste formazioni potrebbero etichettarsi come “movimenti”, per via delle associazioni negative ancora evocate dal partito politico nella sinistra. Ma, in fin dei conti, sono a tutti gli effetti partiti politici. Si possono intendere come tentativi di innovare la forma partitica e renderla adatta alle circostanze attuali, in cui la vita sociale quotidiana è decisamente differente rispetto alle condizioni dell’epoca industriale in cui si era affermato il partito di massa.

Gli attivisti stanno tentando di indirizzare questa sfida utilizzando vari strumenti digitali, tra cui piattaforme online partecipative, rispetto alle quali vi è un dibattito acceso per cui ci si chiede se il passaggio dalla “democrazia delegata” ad una democrazia diretta online sia effettivamente un miglioramento.

Tuttavia, questa trasformazione a livello organizzativo dovrebbe essere accolta come un audace tentativo di far rivivere la forma partitica. Ciò è particolarmente vero in un’epoca in cui vi è una particolare urgenza di aggregare le classi popolari in un attore politico comune, se si vuole dare una scrollata all’equilibrio di forze che propende decisamente a favore delle élite economiche. Fare appello a questo obiettivo strategico farà sollevare domande spinose sul potere e sull’organizzazione interna a cui, per troppo tempo, gli attivisti di sinistra si sono sottratti.

Contrariamente a ciò che alcuni hanno affermato all’alba del nuovo millennio, non c’è modo di “cambiare il mondo senza prendere il potere”. E non c’è modo di prendere il potere e cambiare il mondo senza ricostruire e trasformare i partiti politici.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 41 di Settembre – Ottobre 2019. “La società che vogliamo

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