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di Marco Bertorello, Danilo Corradi*
*articolo pubblicato su il manifesto del 12 aprile 2025 per la Rubrica Nuova finanza pubblica
Trump annuncia una frenata sui dazi per calmare i mercati, ma li rafforza enormemente con la Cina. Uno scenario che oscilla tra prese di posizione nette e repentini retromarcia, ma quel che sta accadendo era pronosticabile. Da tempo Trump intende i dazi come principale strumento per Make America Great Again.
Si può puntare l’indice sui modi, i quali hanno certamente un prezzo, ma la svolta protezionista risulta una mossa difensiva, spericolata, ma con una razionalità. Scherzando potremmo dire che si scrive Make Great, ma si dovrebbe leggere più modestamente Save (salvare). Il contesto va letto a fronte dei fallimenti del neoliberismo sovente a guida democratica e del piano inclinato in cui gli Usa scivolano da tempo. Serve comprendere la complessità del momento, senza rimpiangere il liberismo andato ed escludendo fascinazioni per il sovranismo.
Trump propone un programma di potenza, per quanto di una potenza sulla difensiva. La repentinità dell’azione protezionista ha generato scompensi indiscutibili, ma non è priva di strategia. Da una parte genera difficoltà alle catene del valore delle stesse aziende Usa, dall’altra riduce la possibilità che le nazioni colpite possano fare blocco con contromisure e meccanismi di aggiramento. L’obiettivo di Trump è costringere molti paesi a trattare, ottenendo vantaggi commerciali, e isolare chi vi si oppone, tentando di ridurre l’enorme deficit commerciale disincentivando le importazioni di beni e servizi e richiamando le imprese a investimenti diretti negli Usa. Con diversi problemi. Tra le merci che vengono importate ci sono anche forniture alle imprese americane e questo può generare, nel breve periodo, difficoltà e paradossi a chi teoricamente si vorrebbe proteggere. Le catene produttive non possono riorganizzarsi in tempi così brevi. I dazi sono dunque destinati a generare inflazione dei prezzi. La riduzione del deficit commerciale potrebbe però rafforzare il dollaro riducendo l’impatto relativo alla crescita dei prezzi, ma anche l’efficacia dei dazi, con il rischio di nuova instabilità finanziaria e guerre monetarie.
È anche per questo che Trump chiede di ridurre i tassi d’interesse alla Fed, per contenere una eccessiva rivalutazione del dollaro, ma anche una possibile recessione. Proprio quest’ultima prospettiva fa dormire sonni poco tranquilli a Washington. Il grande dilemma riguarda, infatti, la tenuta della domanda americana. La propensione al consumo rischia di indebolirsi. L’incertezza può mettere i consumatori americani in una posizione di attesa. Trump durante le elezioni ha parlato all’America profonda che è tendenzialmente ostile al mondo della finanza, ma oggi finanza ed economia reale sono strettamente legate.
L’effetto ricchezza dell’inflazione finanziaria e immobiliare è stato uno dei fattori che ha contribuito a sostenere consumi, indebitamento, investimenti. Se le bolle si sgonfieranno anche l’America profonda rischia di pagare un prezzo. Tanto più che, considerando anche i fondi pensione, 9 americani su 10 sono legati agli andamenti finanziari. Basteranno gli investimenti diretti che i dazi potrebbero attrarre per compensare questa possibile tendenza? E chi finanzierà il debito americano che dipende anche dai flussi finanziari esteri? Complesse sono anche le prospettive degli altri paesi. Difficile sostituire in tempi brevi la domanda americana. Giappone, Cina, Europa possono fare anche accordi tra loro, ma sono economie mercantiliste vocate all’esportazione. I loro interessi non sono convergenti. Riusciranno ad allearsi per minacciare la centralità del dollaro o per colpire fiscalmente le Big Tech americane e costringere gli Usa a cedere? Ma soprattutto, il protezionismo da tardo impero di Trump, siamo sicuri che può esser battuto brandendo le ragioni di un liberismo che ha prodotto questa crisi? Forse servirebbe un’alternativa all’altezza della sfida che viene avanzata.