L’Asia occidentale ribolle

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26 novembre 2024 – Tappa di Torino della terza Marcia mondiale per la Pace e la Nonviolenza — Pagina facebook di Un Ponte Per – Torino

di Giulia Torrini (co-presidente di Un Ponte Per)

È un esercizio comune a molte associazioni e realtà della società civile, quello di riflettere oggi su cosa sta accadendo in questa strana Europa sempre più inclinata a destra, mentre il Medio Oriente ribolle, mentre va a fuoco con munizioni made in Italy.

Iniziamo dal fatto che noi di Un Ponte Per non lo chiamiamo più Medio Oriente, ma Asia occidentale. Una scelta non solo lessicale, ma anche politica. Da anni ormai poniamo l’accento sul tema della decolonialità. Nel cercare un approccio decoloniale, infatti, non potevamo non mettere in discussione il linguaggio eurocentrico che caratterizza questa area del mondo, e molte altre.

Medio Oriente o Regione Medio Oriente Nord Africa (Mena), infatti, hanno un portato coloniale e imperialista. Si chiamava ’Vicino Oriente’, poi gli americani all’inizio del Ventesimo secolo hanno coniato il nuovo termine, talmente usato che nessuno si ricorda più la sua origine.

Oggi però risulta troppo importante per noi dare peso alle parole. Per questo abbiamo scelto di adottare la formula Asia occidentale e Regione Southwest Asia and North Africa (Swana), per definire le macro-regioni del mondo e i Paesi in cui operiamo.

Tra questi l’Iraq, il nostro primo amore, da 34 anni. E poi la Siria del Nord-est, dove mi trovavo proprio a gennaio di questo anno, quando Donald Trump ha deciso con un colpo di pazzia di cancellare l’aiuto alla cooperazione americana in tutto il mondo perché “non in linea con le nuove politiche americane in materia di affari esteri”.

C’è un nuovo equilibrio al potere, e soprattutto una ’nuova America‘. Non più quella che si vantava di esportare la democrazia, non quella delle invasioni per le guerre ’giuste‘, dei contributi alla cooperazione spesso in cambio di potere economico, del sacrificio per sconfiggere il terrorismo, delle libertà.

Il primo donatore al mondo nella cooperazione internazionale globale oggi ha un volto ancora più spregiudicato. In una sola notte cancella miliardi di dollari che significano vaccini, medicine, carburante, e lavoro per milioni di persone nelle aree più povere della Terra. Come il Nord-est della Siria, dove Un Ponte Per lavora dal 2015 con progetti umanitari insieme a partner locali storici. Ospedali, centri di emergenza, cliniche mobili e ambulanze.

Oggi tutto è a rischio interruzione, già depotenziato. Luoghi come il campo di Al Hol, conosciuto al mondo per essere ’il campo delle famiglie di Daesh‘, un luogo dimenticato da Dio e da tutto l’Occidente che non ha voluto fare i conti con i combattenti con passaporto straniero. Oggi quel campo rischia di non avere neanche i servizi essenziali come quelli sanitari e di assistenza per donne e bambini. Intanto i curdi e le curde che hanno davvero sconfitto Daesh, accolgono i nuovi sfollati in arrivo dalle zone colpite dai droni turchi lungo il corso dei fiume Eufrate.

Con il taglio all’United States Agency for International Development (Usaid), vengono meno miliardi investiti in questa area del mondo dove 4,5 persone vivono di aiuti umanitari. Solo Un Ponte Per nel 2024 ne ha raggiunte 1,6 milioni, con cure mediche, prevenzione, con percorsi di protezione per donne vittime di violenza e bambine costrette a matrimoni precoci o a sfruttamento lavorativo.

Nel frattempo, da 17 mesi il protetto numero uno dagli Usa distrugge Gaza in diretta TV. Israele risponde in maniera disumana e spropositata all’attacco del 7 ottobre 2023, avverando un antico sogno: cancellare quel che rimane della Palestina, e poi finire di occuparla. Un genocidio senza filtri, in cui bambini, donne, ospedali, ambulanze, vengono colpite dietro la scusa della distruzione dei terroristi di Hamas.

Del resto, il reel sulla ricostruzione della Striscia di Gaza in ottica di riviera del lusso non è lontano dalle fantasie egemoniche dei due leader di oggi, tanto amici quanto megalomani.

Davanti a questa vergogna, di cui tutto il mondo si dovrà far carico, rimane forte e fiera la resistenza palestinese. E il ruolo delle sue donne, da sempre presenti e protagoniste della lotta sociale e politica, il loro corpo doppiamente esposto. Come racconta Cecilia Dalla Negra nel suo ultimo libro Questa terra è donna (Astarte, 2024), ripercorrendo i movimenti femminili e femministi della storia palestinese.

Poco più a Nord, come scrivevo, anche la Turchia di Recep Tayyip Erdoğan occupa terreni che non le appartengono, bombardando il Nord della Siria e dell’Iraq, attaccando dighe e impianti idrici e costringendo appunto migliaia di persone alla fuga, bombardando le ambulanze coi droni. Mentre scrivo, a inizio aprile, si sta tentando una fragile riconciliazione tra Turchia e fazioni curde del Nord-est Siria, ma di questi tempi le tregue non durano mai molto.

Quando vuole essere Europa, la Turchia torna ai tavoli dell’Unione, invitata da Bruxelles. Poi sembra pronta a rientrare nel programma F-35, ed Erdoğan programma un bel viaggio alla Casa Bianca. Intanto chiede di entrare nei Brics, nel novero delle economie emergenti.

Negli ultimi anni Erdoğan ha dato una fortissima spinta alle politiche economiche turche, dopo un periodo di crollo della moneta, andando verso una crescita che gli potrebbe permettere un nuovo assetto e quindi un diverso potere di influenza nell’area che guarda verso Est, non più verso Ovest.

Il Presidente turco ha arrestato l’unico avversario temuto delle prossime elezioni nazionali, gli ha tolto la laurea, e come sa fare bene, sta reprimendo il dissenso. Le piazze turche si riempiono di giovani in protesta, in milioni hanno manifestato nel centro di Istanbul chiedendo la liberazione di Ekrem İmamoğlu e le elezioni anticipate.

Mi ricordano i giovani della Rivoluzione Tishreen, che nell’ottobre 2019 hanno riempito le strade dell’Iraq. Qui la forza dell’attivismo di questa giovane rivoluzione, pacifica e organizzata, è riuscita a ottenere la dimissione dell’intero governo e nuove elezioni. Non lontano anche il Libano tentava una durissima lotta di popolo con una altissima partecipazione giovanile, senza però riuscire davvero a combattere il clima settario e sempre più corrotto di questa democrazia in piena crisi economica.

Tornando all’Iraq, se oggi le città come Baghdad hanno un volto nuovo, hanno spazi di aggregazione e se la società civile irachena è abbastanza preparata da riconoscere le ingiustizie e le lotte politiche su cui investire energie pacifiste, ambientaliste, eco femministe, è merito anche delle giovanissime che hanno guidato la rivoluzione di questi anni. Lo spiega Silvia Abbà nel libro Il mio posto è ovunque (Astarte, 2023) raccontando voci di donne per un altro Iraq: il numero di donne coinvolte attivamente nelle attività della società civile è cresciuto, grazie alla loro ferma resistenza e alla loro lotta dentro e alla guida della Rivoluzione d’Ottobre del 2019, di cui sono state la voce.

Dal Nord del Paese – liberato da Daesh da ormai otto anni ma dove ancora si nascondono cellule dell’organizzazione – al Sud dove lo stereotipo patriarcale resiste, in un ambiente inquinato dai coloni del petrolio, le donne irachene continuano un percorso di crescita. Ecco perché Un Ponte Per ha come scopo il sostegno delle donne e delle attiviste che lottano contro stereotipi di genere e stringenti norme sociali. In un Paese che ancora oggi avalla il matrimonio minorile per le bambine dai nove anni di età, la partecipazione femminile alle fasi di ricostruzione delle Istituzioni statali è decisivo.

In questi territori abbiamo visto spegnersi le guerre, e poi ricominciare conflitti armati di lunga durata, quasi sempre nella piena complicità euro-statunitense. Nel frattempo, i leader del mondo si spartiscono potere economico, si scambiano armi, alimentando l’economia di guerra, e depotenziando la spesa in cooperazione internazionale fino a cancellarla. E in questo percorso il patriarcato si espande e si ossigena attraverso la leadership globale, machista e populista.

Mentre l’Europa conia il peggior nome per un piano di difesa cioè ReArm Europe, confessando senza pudore un desiderio di riempire i magazzini di armi e munizioni, mentre gli Usa dissolvono in una notte l’Agenzia di aiuto umanitario togliendo al mondo intero il 40% degli aiuti umanitari, l’Asia occidentale subisce come sempre le conseguenze di queste scelte, a cominciare dai corpi fragili, come donne e bambine.

Un colonialismo patriarcale, economico, culturale, che va combattuto anche dall’interno.

Un Ponte Per da 34 anni è al fianco delle popolazioni vittime di guerre, abusi, ingiustizie. Nell’impegno politico quotidiano e nelle relazioni costruite in questi anni, troviamo la forza di lottare ancora per una giustizia femminista, climatica e sociale per tutti i popoli del mondo.

Un Ponte Per a Dahuk, governatorato di Dahuk, Iraq. – Pagina facebook di Un Ponte Per.

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 54 di Aprile- Maggio 2025: “L’Europa che non c’è

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