Democrazia, partecipazione, proprietà

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di Pino Cosentino (Attac Italia)

Nel momento in cui conoscenze, competenze, motivazioni, inclinazioni,

creatività, doti personali e tendenze attitudinali dell’individuo vanno a costituire

la materia prima su cui si fonda l’attività produttiva, diventando i fattori portanti

del capitale di risorse d’impresa, è lecito chiedersi:

a chi appartiene questo capitale?

 

(Giuditta Brasca, Le forme immateriali del capitale d’impresa:

riflessioni sull’impiego economico delle risorse umane[1])

 

Nell’affrontare il complesso tema legato alla democrazia, alla partecipazione e alla proprietà dobbiamo tenere in evidenza questi due elementi:

  1. la partecipazione deve essere intesa come condivisione dei processi decisionali tra rappresentanza eletta e cittadini (o, nel caso degli organismi elettivi territoriali, dei residenti).

È da evitare l’equivoco della partecipazione come ascolto o consultazione[2] e l’altro funesto equivoco dei comitati spontanei intesi come rappresentanze della popolazione, alternative a quelle legali. Ciò renderebbe gli attivisti altrettanti membri di un ceto politico alternativo a quello legale esistente, probabilmente migliore, ma anche nuovamente contrapposto ai cittadini comuni, al popolo, di cui i comitati sono e debbono restare membri senza ambiguità né tentennamenti.

  1. Quando parliamo di democrazia facciamo riferimento a concetti e pratiche nati in Grecia 2.500 anni fa e oggi diffusi in tutto il mondo come portato della proiezione mondiale dell’Europa a partire dal XV secolo.

Il Freedom in the World report, il Democracy Index e altri meno noti e autorevoli rapporti misurano e valutano qualcosa che è stato imposto alla stragrande maggioranza della popolazione mondiale “col ferro e col sangue”, con i cannoni e le baionette. La conquista del mondo ha dimostrato la superiorità, almeno in termini performativi, se non qualitativi, della cultura europea in ogni campo: dalla scienza e tecnica all’economia, dalle arti al sistema politico, costringendo ogni popolo della Terra a una disperata rincorsa del modello europeo di organizzazione sociale e statale.

La democrazia rappresentativa dopo la Seconda Guerra mondiale è diventata il modello universale di sistema politico, lo standard a cui tutti sentono di doversi uniformare. Anche le dittature organizzano elezioni, ancorché fasulle; sono pochi ormai gli Stati che teorizzano fonti di legittimità del potere politico diverse dalla sovranità popolare. Tuttavia, tutti i principali Centri studi danno fondamento scientifico alla percezione diffusa di una profonda crisi, ormai da una ventina di anni, della democrazia rappresentativa, proprio nei paesi dove è nata e tuttora massimamente prospera: Europa e Nord America. Contemporaneamente i Centri studi attestano che è cresciuta a livello globale la cultura politica e il desiderio di partecipazione alle scelte politiche da parte dei cittadini. Desiderio di partecipazione che non viene assolutamente preso in considerazione dalla classe politica che, anche nelle democrazie, in ogni angolo del mondo, si tiene ben stretto il monopolio delle decisioni. Aspetto molto umano e comprensibile, ma che non basta a spiegare una crisi della democrazia di cui non si vede la fine.

La globalizzazione capitalistica ha steso un’illusoria sottile vernice unificante su un mondo diviso da abissali contrasti, di ricchezza e di interessi materiali, ma ancor più di tradizioni, sentimenti, abitudini, credenze, comportamenti. Tutti i nodi, in questi ultimi anni, sono venuti al pettine insieme: dalla crisi climatica alla pandemia, dal paventato collasso della finanza pubblica e privata alla crisi delle formazioni sociali fondamentali, a partire dalla famiglia, fino agli imponenti spostamenti di popoli che fuggono guerra e miseria.

Oggi con la rottura del velleitario involucro globalizzante che smaterializzava le aziende collocandole in un innaturale spazio virtuale, si torna a parlare di legame tra territorio e aziende, di risorse umane (o capitale umano) come fattore principale del successo dell’azienda, più importante del capitale stesso. Appare (in)comprensibile l’euforia con cui vengono commentati i quotidiani avanzamenti delle tecnologie e le trasformazioni da esse imposte al lavoro. Si parla apertamente di quinta rivoluzione industriale, mentre ancora non è stata metabolizzata la quarta, che continua a essere presentata come una novità. D’altronde l’espressione Industria 4.0 ha appena 12 anni, essendo stata usata per la prima volta nel 2011, alla Fiera di Hannover. In Italia, invece, la prima iniziativa governativa sul tema risale al Piano Industria 4.0 del 2016, poi Piano Impresa 4.0 fino all’attuale vigente Piano Nazionale della Transizione 4.0.

Industria 4.0 nasce dalla quarta rivoluzione industriale, quella digitale, che sta portando alla produzione industriale del tutto automatizzata e interconnessa, in cui non esisterebbe più “forza lavoro”, ma solo “lavoro intelligente”. Secondo i propagandisti di Industria 5.0, questa si differenzierebbe dalla precedente per essere una rivoluzione culturale e non tecnologica. Una rivoluzione che segna il ritorno della centralità della persona e dell’ambiente nel processo industriale. Appare, quindi, abbastanza chiaro che la foga definitoria mira a creare la novità a ogni costo a scopi propagandistici.

La partecipazione punta esattamente alla stessa meta: riportare la persona e il territorio (l’ambiente) al centro dell’economia, ossia dei suoi protagonisti: le imprese, o aziende, o ditte, ovvero le organizzazioni di base di ogni processo produttivo.

Ed è qui che emerge la struttura proprietaria della società. Essa non può permettere che si allenti la sua presa sul potere politico a ogni livello, per ragioni immediate (l’interesse spicciolo di ogni singolo capitalista a massimizzare il proprio utile) e di lungo periodo (l’interesse collettivo dell’élite capitalistica a conservare i meccanismi delle disuguaglianze, fondati sull’appropriazione privata del surplus sociale grazie a un diritto di proprietà illimitato nella quantità e nel tempo).

La crisi della democrazia rappresentativa è un aspetto della più ampia crisi di un modello di società, definibile sinteticamente neoliberale, comprendente anche il settore pubblico attraverso il New Public Management (NPM), e l’organizzazione aziendale top-down.

Dalle crisi si può uscire in molti modi, il nodo è sempre quello della proprietà o controllo dei mezzi di produzione. Non è inevitabile che sia la proprietà privata, con il corollario della centralizzazione dei capitali, delle crescenti disuguaglianze e delle guerre imperialistiche[3], a garantire efficienza e progresso materiale. Anche la letteratura aziendale più benevola verso i nuovi sviluppi delle tecnologie e delle conseguenti riorganizzazioni aziendali può essere capace di lucidità e verità[4].

La rottura della gabbia proprietaria sarà verosimilmente il passo decisivo verso una nuova era, che sta crescendo nel grembo dell’attuale, e la leva non può essere che la partecipazione, a partire dal livello locale.

La crisi della democrazia rappresentativa rischia di precipitare il mondo in una spirale reazionaria con la perdita di diritti fondamentali, ma è anche una finestra di opportunità.

Note:

[1] Nella rivista online Culture e Impresa, n. 10, giugno 2013

[2] “La democrazia rappresentativa si regge su due gambe, quella dell’opinione e quella della volontà, cioè della decisione. Quella dell’opinione, del giudizio espresso in pubblico, ci fa oggi illudere che basti essere connessi per essere decisori, per contare; che sia sufficiente essere connessi per essere cittadini dotati di potere. Questa è un’illusione potentissima. Ed è possibile che l’illusione di essere attivi attraverso il giudizio, il commento, ma mai la decisione, venga utilizzata a ragion veduta dai leader populisti che vogliono o vorrebbero pensare di illudere che attraverso una persona, o poche persone, l’intero mondo possa parlare”.

Nadia Urbinati, Pandemia e società democratica. Il terreno comune di una nuova normalità, nel periodico trimestrale Nova Atlantide n. 2/2021 (Fondazione per la Sussidiarietà)

[3] Cfr. Emilano Brancaccio, Raffaele Giammetti, Stefano Lucarelli, La guerra capitalista. Competizione, centralizzazione, nuovo conflitto imperialista (Mimesis, 2022).

[4] “[I risultati dell’inchiesta indicano] fatica nel cogliere il valore centrale del capitale umano dell’impresa”. “L’idea che «la qualità» è indissolubile dalla forza dei territori e dalle reali abilità dei lavoratori fatica a farsi strada… emerge anche come la formazione del talento sia considerata quasi secondaria”.

Giovanni Lanzone, I vestiti nuovi dell’imprenditore. Caratteri, tipi e tipologie dei nuovi imprenditori italiani nel libro La nuova borghesia produttiva. Un modello per il capitalismo italiano, a cura di Mauro Magatti, (Guerini e associati, 2015). Il volume presenta e commenta i risultati di una vasta inchiesta che ha coinvolto 1.500 imprese italiane. Sebbene un po’ datate, queste e altre risultanze conservano tutta la loro attualità.

Foto: Immagine su una maglietta di Attac 

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 51 di Gennaio-Marzo 2023: “Riprendiamoci il Comune

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