L’esistenza di un sistema internazionale di campi di confinamento organizzati dall’Europa

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di Gianfranco Schiavone (vicepresidente ASGI)

Dedico questo articolo alla memoria dell’amico don Pierluigi Di Piazza, prete degli “ultimi” e grande figura della società e della cultura italiana scomparso a metà maggio, pochi giorni dopo il Convegno internazionale – di cui parlerò in questo articolo – che si è tenuto l’8 e 9 maggio 2022 nel Centro da lui fondato e dedicato ad Ernesto Balducci.

Da decenni la maggior parte dei rifugiati nel mondo (specie nel Sud del mondo) vive in “campi” ovvero in contesti collettivi, spesso enormi, nei quali la dignità delle persone viene mortificata. Siamo così abituati a questa situazione che non ci fa più effetto vederla e non esiste un programma/strategia internazionale per il superamento di questa situazione (neppure a livello di dichiarazione di intenti). Il Convegno internazionale organizzato dalla Rete Rivolti ai Balcani al Centro Balducci di Zugliano (UD) ha avuto come finalità quella di tornare ad illuminare la  trascurata questione dei campi; non tuttavia della questione dei campi dei rifugiati in generale, anche se di tale scenario internazionale si è tenuto conto nei lavori. Il convegno ha infatti deciso di concentrarsi su una questione peculiare, di enorme importanza ma disconosciuta tanto nel dibattito pubblico quanto negli studi accademici, ovvero sul fatto che l’attuale politica dell’Unione Europea non solo non combatte la proliferazione dei campi ma la alimenta fortemente e con determinazione. La ragione di una tale scelta è legata alle politiche di esternalizzazione dei controlli di frontiera e del diritto d’asilo, strategia che l’Europa ha messo al centro del suo agire nell’ultimo decennio e dal 2016 (con l’accordo UE-Turchia in modo particolare).

Le politiche di chiusura all’accesso dei rifugiati in Europa e i respingimenti illegali ci pongono la domanda: dove finisce tutta l’umanità in eccesso che l’Europa rifiuta e respinge? Una parte delle persone muore nei viaggi e un’altra piccola, molto piccola, parte fa persino rientro nel paese di origine in condizioni tali che non è possibile parlare, se non con macabra ironia, di rientro volontario. La stragrande maggioranza rimane in paesi che diventano di fatto “paesi-contenitori di rifugiati”, che non possono o non vogliono assicurare ai rifugiati stessi né un’effettiva protezione giuridica né un percorso di integrazione sociale. Masse più o meno grandi di persone che si vorrebbe non esistessero ma di cui non ci si può disfare completamente, hanno bisogno di essere collocate da qualche parte ma tale collocazione deve garantire un loro adeguato contenimento e isolamento affinché non entrino in Europa.

Da tali finalità nasce la logica di questi luoghi, presentati ufficialmente come campi di accoglienza ma che in realtà svolgono un’altra funzione, quella di campi di confinamento, ovvero luoghi  dove garantire la minima sopravvivenza materiale ai rifugiati ma, nello stesso tempo, segregandoli dentro una dimensione di sospensione, a tempo indefinito, dei loro diritti fondamentali. All’esatto contrario di come vengono presentati e giustificati, ovvero realtà che sorgono per la necessità di rispondere a situazioni contingenti ed eccezionali, i campi di confinamento sono espressione della volontà di usare specifiche strutture con lo scopo di isolare per lungo tempo i richiedenti asilo e i rifugiati e porre scientemente le persone “accolte” in condizioni degradanti al fine di scoraggiare gli arrivi in quell’area o di perseguire altri obiettivi riconducibili a finalità politiche interne e/o internazionali.

Il confinamento nei campi non è una misura dolorosa e discutibile ma giustificata da una strategia di protezione dei rifugiati e avente come obiettivi da un lato quello di programmare ingressi ordinati nella UE concertati tra gli Stati e dall’altro lato contrastare il traffico internazionale di esseri umani, come viene annunciato sempre nelle dichiarazioni ufficiali. Al contrario, il sistema dei campi non risponde ad alcuna dolorosa emergenza e non è temporaneo. Il campo di confinamento è, al contrario, la “soluzione” individuata per trattare l’umanità in eccesso che viene tenuta fuori dalla nostra porta.

Ricostruendo con rigore scientifico la situazione di 5 paesi chiave come la Bosnia, la Serbia, la Macedonia del Nord, la Grecia e la Turchia, il convegno (di cui sono disponibili i lavori online, in italiano e in inglese) ha voluto approfondire la natura dei campi di confinamento provando ad individuare delle caratteristiche generali peculiari a tali strutture che sorgono in contesti diversi, fuori dalla UE ma anche al suo interno. Il quadro che ne è emerso può essere così sintetizzato:

1) i campi sono costituiti da strutture di grandi o grandissime dimensioni, allestite riutilizzando in genere ex spazi industriali o militari in stato di avanzato degrado, o tende o moduli abitativi temporanei. Talvolta si tratta di strutture costruite ex novo ma in entrambi i casi (cioè sia che si tratti di strutture nuove che di riuso) esse sono concepite come radicalmente alternative alle realtà abitative ordinarie, anche se accessibili e meno costose. Ogni forma di accoglienza che non sia realizzata nei campi ma ricorrendo a centri più piccoli e integrati nel territorio o a case di civile abitazione viene vigorosamente ostacolata perché totalmente disfunzionale alla logica del confinamento. L’eventuale esistenza di micro-progetti di accoglienza dignitosa per piccoli numeri e per soggetti molto vulnerabili non modifica il quadro generale negativo ma semmai si inserisce all’interno di un sistema di propaganda che utilizza tali interventi per distogliere l’attenzione dalla situazione generale nella quale sprofondano la quasi totalità di coloro che vivono nei campi;

2) i campi sono volutamente ubicati in aree isolate e talvolta quasi inaccessibili allo scopo di isolare i rifugiati dal contesto territoriale, ostacolando fino a renderle impossibili, ogni relazione sociale con l’esterno e limitando di fatto, anche in assenza di un provvedimento formale, la libertà di movimento e la vita sociale delle persone “accolte” o più propriamente dovremmo dire “trattenute di fatto”. I campi hanno sempre una natura semi-detentiva, determinata dalla micidiale combinazione data dall’isolamento del luogo, dalle regole di accesso – impedito sempre e in modo drastico, ad esterni – e da orari limitati per l’uscita e il rientro. Diversamente da qualsiasi persona libera di ricevere le visite di chi desidera nella sua casa (fosse anche una capanna) il rifugiato che vive nei campi non può ricevere visite. Egli quindi vive in uno spazio, in un non-luogo, in cui lui è solo materialmente collocato. La vita privata intesa come “diritto di stabilire e sviluppare relazioni con altri esseri umani” (Corte Europea dei diritti dell’Uomo, sentenza Niemiets c. Germania dicembre 1992) è di fatto impedita a chi vive nei campi, che, a parte l’unica relazione con i co-confinati, diventa una persona priva di ogni forma di relazione sociale.

Nei campi di confinamento si produce dunque una costante violazione dell’art. 5  (diritto alla libertà e sicurezza) e dell’art. 8 (diritto alla vita privata e famigliare) della CEDU, come si trattasse di un fatto pacificamente accettabile. Il prolungato isolamento e l’impossibilità di costruire relazioni sociali significative con coloro che vivono all’esterno dei campi produce nelle persone accolte/trattenute un senso di estraneità e passività e facilita l’insorgere degli stessi disturbi psichici più o meno riscontrabili nelle persone soggette a una lunga detenzione senza colpa (e quindi senza ragione);

3) Aspetto strettamente collegato alla natura semi-detentiva dei campi, ma che è opportuno anche evidenziare, è la militarizzazione delle strutture. Essa è in genere assoluta ed è invocata (senza spiegarla) come misura di sicurezza per chi vive nei campi. Motivazione inconsistente giacché la militarizzazione è invece funzionale al regime semi-detentivo e soprattutto è finalizzata ad impedire l’accesso ad osservatori esterni che possono porre questioni di ogni tipo. I campi sono sottratti alla vista dei normali cittadini;

4) nei campi le condizioni di abitabilità e di rispetto degli stessi standard igienici sono carenti talvolta anche in modo estremo e il sovraffollamento che in genere caratterizza  tali luoghi non è frutto di una contingenza data da un temporaneo aumento degli arrivi bensì è una caratteristica strutturale, funzionale a che il campo rimanga uguale nel tempo, senza alcun sostanziale miglioramento che ne possa modificare la natura e le funzioni;

5) le condizioni di degrado dei campi di confinamento non dipendono dalla mancanza di fondi né la loro gestione risulta più economica rispetto ad un’accoglienza in case di civile abitazione con standard adeguati. Al contrario, la gestione dei campi di confinamento risulta fortemente dispendiosa, e concentra il potere economico e decisionale nelle mani di pochi grandi soggetti;

6) per chi vive nei campi risulta del tutto assente ogni programma, anche minimo, di integrazione sociale; il tempo è come sospeso e nulla si modifica in ragione della durata della permanenza delle persone che vi abitano. A parte qualche stucchevole gioco per bambini costruito tra il cemento, spesso nei campi non ci sono neppure spazi comuni che non siano quelli necessari, come ad esempio la mensa;

7) nonostante le loro straordinarie rigidità, i campi di confinamento possono assumere anche funzioni estremamente flessibili, modificando repentinamente le loro finalità e la tipologia di “ospiti” e possono “accogliere”, se utile, anche persone la cui condizione giuridica è indefinita nonché persone chiaramente irregolari sotto il profilo del loro soggiorno. I campi in Bosnia sono un esempio tipico di questa funzione multipla in quanto operano quale sorta di campo-base per stranieri del tutto irregolari ai quali viene concessa quale unica libertà di movimento quella di tentare il “game” verso la Croazia dove vengono respinti illegalmente e anche con uso di violenza estrema;

8) in conseguenza della necessità di poter disporre di luoghi con la minore regolamentazione possibile, i campi in assoluta prevalenza sono collocati al di fuori dell’Unione Europea ma, man mano che procede in Europa il processo di erosione delle garanzie giuridiche sul trattamento dei richiedenti asilo, la logica dei campi inizia ad invadere anche parte dell’Unione Europea (nel corso del convegno è stato esaminato in particolare il caso della Grecia). Se dentro l’Europa non è infatti possibile lasciare indefinita la condizione giuridica della persona accolta/confinata, si provvede a comprimere in modo durissimo ogni diritto del rifugiato sia per ciò che attiene la procedura di esame delle domande di asilo (applicazione di procedure iper accelerate, applicazione della finzione di “non ingresso” nel territorio, compressione del diritto al ricorso) sia per ciò che attiene le condizioni di vita. Il campo, con le logiche di isolamento e mortificazione dei diritti fondamentali viene in questo modo riproposto anche dentro l’Europa nonostante la sua stessa concezione sia in palese contrasto con i diritti fondamentali della persona formalmente in vigore nell’Unione Europea.

Occuparsi dei campi di confinamento significa dunque volgere lo sguardo verso uno dei più inquietanti fenomeni del nostro tempo, che ci scorre accanto senza che ne accorgiamo ma che mette in seria discussione i nostri sistemi “democratici”.

Foto 1: “Cpr di corso Brunelleschi: l’allarme della Commissione Legalità” cittAgorà, periodico del Consiglio comunale di Torino

Foto 2: Locandina del convegno “I campi di confinamento nel XXI secolo e le responsabilità dell’Unione europea” , pagina facebook del Centro di Accoglienza Ernesto Balducci

Articolo tratto dal Granello di Sabbia n. 50 di Giugno-Luglio 2022: “Guerra e migranti, guerra ai migranti

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